# I miei racconti


                                             RACCONTI  AL  PEPE
                                                               (tutti i diritti riservati)


A proposito di malasorte
 
   In gioventù io non davo alcun peso alla fatalità: intesa come forza occulta capace di trasformare un essere pensante in protagonista di fatti non voluti dalla ragione. L'uomo per me era l’artefice solitario dei suoi successi o delle sue sconfitte.  E Perciò appellarsi al fato per giustificare un suo eventuale fallimento, dal mio punto di vista significava attaccasi ai vetri nella vana ricerca di un alibi che ne attenuasse tutte quelle colpe dovute alla sua incapacità nello scindere il meglio.
   Formatosi culturalmente all’ombra di don Lorenzo Capitano: un prete capace finanche di negare l’esistenza di Dio se le cose non giravano per il giusto verso, pensarla in questo modo divenne il mio marchio di fabbrica che durò ben oltre la leva obbligatoria: l’ultima...a proposito di malasorte, prima che la ferma venisse ridotta da diciotto a quindici mesi.
   Per rendere ancora meglio l’idea, oggi posso aggiungere che, all’epoca questo mio assolutistico modo di vedere le cose non presentava crepe di nessun genere. Mi ero addirittura coniato un neologismo da mettere in piazza in caso di bisogno, che recitava: “Il nostro male siamo noi!”. Perciò nessuna forza occulta secondo cui tutto accadeva parchè così era scritto nel grande libro del destino. Né iella con scongiuri e toccate di ferro...o giù di lì! E se qualcuno fosse venuto a dirmi di essere accidentalmente caduto in un pozzo, sarei stato pronto a giurare che aveva tentato il suicidio.
  Questo catoneggiare a senso unico, nonostante fossi giovane non ancora ventenne, all’inizio piacque molto ai miei colleghi d’ufficio. Ricordo addirittura che in una delle tante occasioni, dopo aver sostenuto con una certa enfasi che il saggio era destinato a progredire sempre e comunque...un asserto del tutto gratuito, ricevetti una discreta dose di applausi: alcuni dei quali per la verità poco convinti ma graditi lo stesso. In una diversa circostanza, invece, circondato dal solito gruppetto di scansafatiche col quale nei pomeriggi di festa ero solito andare per chiacchiere, feci mie le parole di un vecchio proverbio crotonese ancora in auge, recitante: “U malu ferru si ndì va cca mola1”. E dato che stavamo parlando di un personaggio pericoloso, ferito qualche ora prima con un colpo d’arma da fuoco, il mio dire cadde inspiegabilmente come goccia di pioggia cade in mare: senza cioè produrre un minimo di ciancia. Siccome l’allusione era stata fin troppo chiara, della conventicola che mi ruotava intorno in un batter di ciglia non rimase neppure l’ombra.
   Ovviamente, ci restai malissimo, quel pomeriggio d’agosto, vedendomi di punto in bianco senza i soliti cortigiani sulle assolate panchine del Viale Antonio Gramsci, di fronte al mare. Ma restai comunque sul posto. Da solo. A meditare sui buoni e sui cattivi. Arrogandomi anche...come prima rivalsa, il diritto di condannare i responsabili di quell’immeritato abbandono.
   All’indomani, sul posto di lavoro, andò addirittura peggio.
   – Quando parli di Totuzzu Sganga devi stare attento! – mi sibilò nell’orecchio il signor Procopio, proprietario della ditta produttrice di sardella calabra presso la quale prestavo la mia, opera in qualità di addetto alle spedizioni fuori piazza.
   Non meno lapidario fu il suo strafottente rampollo:
   – Totuzzu è solo un uomo perseguitato dalla malasorte! E tu bene faresti a non parlarne proprio per niente, fino a quando sarai un nostro salariato! – e si fermò lì...dopo un’occhiataccia che la diceva davvero lunga sul mantenimento del mio posto di lavoro in caso contrario.
   Anche il ragioniere Scaglione, che solitamente condivideva le mie esternazioni e che non perdeva appigli nell’indicarmi come esempio da seguire, quel mattino volle aggiungere la sua; tacciandomi d’imprudenza e senza tanti preamboli, infatti, alla fine egli mi disse che l’uomo da me ritenuto un delinquente per
i suoi burrascosi trascorsi, era stato ferito per puro caso dal figlio non ancora undicenne, con una vecchia rivoltella trovata chissà dove. Così per la prima volta, dopo il trattamento riservatomi il giorno prima alla Marinella, dovetti mettermi l’animo in pace e vestire i panni del censore censito. Sapendo benissimo, dopo le vicissitudini del giorno prima, che nel fare vetrina di un sapere assoluto sulle debolezze umane il rischio di apparire qualche volta avventato e da mettere in agenda. Malgrado ciò, dovendo recitare un mea culpa lo feci non come un cane bastonato per il troppo abbaiare, ma come un bravo maratoneta arrivato ultimo solo per un incidente di percorso.
   Certo è che se fossi stato un tantino più elastico, il grosso guaio patito dallo Sganga avrebbe dovuto dirmela lunga sulla malasorte! O quanto meno…per non intaccare più di tanto la nomea di fustigatore di costumi guadagnatami sul campo, avrei dovuto munirmi di un pizzico di tolleranza da utilizzare nelle occasioni future...sia pure con parsimonia. Invece, imperterrito, continuai a lanciare anatemi in quel di Crotone: dove dopo i fasti della Magna Grecia persino lo spuntare del sole, a volte, poteva dipendere dal fato. E la mia intolleranza si mantenne compatta anche quando di mezzo vennero a trovarsi parenti e amici. Come per esempio Rocco Apuleo, facente parte degli ultimi, dopo che per infedeltà  uccise la moglie Nuccia.
   I due coniugi, nati e residenti a pochi passi da casa mia fino al matrimonio, in Città erano conosciuti da tutti. L’uxoricidio destò quindi una forte impressione, facendone parlare a lungo. Tant’è che l’opinione pubblica si divise ben presto in due granitici blocchi che non volevano sentir ragione! Il primo...di sicuro il più numeroso, chiedeva l’immediata scarcerazione del tradito Rocco appellandosi al delitto di onore. Il secondo, al contrario, essendoci stata una rivisitazione al Codice Penale riguardante proprio quel reato specifico, era per una condanna severa senza il beneficio delle attenuanti.
   Sia pure amico quasi fraterno di Rocco…avendo con lui trascorso una spensierata fanciullezza ed avendolo avuto come compagno di banco nelle cinque classi delle Scuole Elementari, in merito alla questione io facevo parte del secondo fronte perché, dal mio punto di vista, lui la rogna se l’era andata a cercare. E se l’era cercata con il lanternino: costringendo la riluttante Nuccia a seguirlo in un’avventura, quella torinese, assolutamente non necessaria sotto il profilo economico.
   Da questa posizione di colpevolezza totale non mi smossero neanche i suoi parenti più stretti, compresa la madre, che io, con un pizzico di cultura araba...dovuta forse alle antiche incursioni in Calabria di Sinan Pascià2, chiamavo zia.
   – E' stato un pazzo! – le gridai un giorno mentre prostrata dal dolore mi pregava di scrivere una lettera al figlio...precipitato in una pericolosa depressione nel carcere torinese.
   La povera donna, visibilmente amareggiata per il mio dire, quella volta forse di me pensò la più o meno la stessa cosa che Gesù Cristo dovette pensare di Giuda Iscariota nel corso dell’ultima cena. Ma io fui irremovibile e restai arroccato su quella che poi era la mia incrollabile idea di fondo...cioè che un omicidio poteva essere giustificato soltanto da una concreta legittima difesa.
   E non mi ammorbidì neppure Margherita, la sorella di Rocco, allorché c’incontrammo a tu per tu in un negozio di via Cutro, un mese dopo il fattaccio. In quella occasione, era la vigilia di Pasqua del 1982, dopo l’ennesimo quanto inutile tentativo se ne andò senza nulla dirmi del processo a Rocco: già fissato per l’imminente mese di maggio.
   Di quel giorno ricordo ancora il suo malcelato distacco nel salutarmi...mentre in lei premeva una malcelata voglia di piangere. Un rammarico, il suo...probabilmente dovuto ad una mia mancata promessa di ufficializzare la nostra reciproca attrazione di sempre, con un qualche cosa di più concreto, naufragata proprio per la posizione da me assunta nei confronti di Rocco dopo l’uccisione della cognata Nuccia.
   Con un metro di giudizio rivoluzionato dai tanti anni passati a riflettere sulle umane miserie, nel rivisitare a mente fredda quel dramma della gelosia, oggi ritengo di dover disconoscere quasi tutte le mie certezze di allora. Credo quindi di poter dire, per la prima volta, e senza tema di smentite, che finanche l’uomo più razionale del mondo, di fronte ad un destino avverso, può dare di testa. L’odierna logica mi fa ora pensare che anche in casa della tolleranza può esserci quella piccola goccia che fa traboccare il vaso. E quando questo accade è del tutto inutile cercare cause che sfuggono alla ragione...in tal caso c’è solo da sperare che il destino non sia malevolo nei nostri confronti...come lo fu con il mio amico Rocco: vittima predestinata delle velenose scorie di una società in cui la morale stava andando a farsi fottere.
   Rividi nuovamente il fratello di Margherita alcuni mesi dopo la scarcerazione, verso la fine giugno del 1996, al suo ritornò a Crotone per riabbracciare la madre. C’incontrammo al Castello l’ultima domenica del mese, all’imbrunire. Quel pomeriggio, lungo la ripida salita che porta al parco dell’antico maniero aragonese, lo vidi arrancare con passi lenti e col fiatone. Io ero in cima già da un pezzo, a chiacchierare del più e del meno con un gruppetto di amici.
   Appena si accorse della mia presenza, a gran fatica volle velocizzare la camminata per venirmi ad abbracciare: segno evidente che nulla aveva saputo della mia presa di posizione nei suoi confronti, all’epoca del processo.
   – Ho saputo ch’eri quassù e sono venuto a salutarti. ̶  disse.
    ̶  Hai fatto bene, ti rivedo con piacere! – risposi.
    ̶  Anche parchè potrebbe essere l’ultima. – bisbiglio.
    ̶  Cosa significa? – gli chiesi, in apprensione per il suo stato mentale e per la sua salute.
    ̶  Appena avrò i documenti in ordine andrò in India e non farò più ritorno in Italia: diventato paese senza i fondamentali della giustizia – pronunciò con la mente altrove.
   Dimagrito da fare spavento, non c’era bisogno della zingara per capire che faceva un largo uso di eroina: lo provavano i tanti buchi sparsi sulle braccia. Inoltre, da come strabuzzava gli occhi si vedeva benissimo ch’era in crisi d’astinenza, e dalle sue centellinate parole s’intuiva che stava vivendo un oggi senza domani...con una particolare avversione per tutto ciò che potesse significare darsi una regolata.
   Prima del suo definitivo allontanamento dalla Città, noi due ci vedemmo ancora, ma sempre di sfuggita. Costanti furono in ogni caso le mie lavate di capo affinché la smettesse con quella corsa all’autodistruzione. Ma dovetti alla fine dedurre che la droga – offuscandogli il cervello – lo aveva reso refrattario ad ogni sollecitazione. Perciò le mie rampogne a nulla valsero.
   Con Nuccia sepolta in terra natia per espresso volere dei parenti più stretti, l’unico desiderio di Rocco nei momenti di rara lucidità, mi dissero in seguito certi nostri comuni amici, era quello di portare alla moglie enormi fasci di rose rosse. Lì, sulla fredda lastra di marmo che ancora oggi ne copre i resti e ne testimonia la prematura dipartita per mano assassina, lui se ne stava seduto a parlare con lei per dei pomeriggi interi. A volte doveva essere addirittura il necroforo a farlo uscire dal cimitero, dopo l’orario di chiusura al pubblico.
   Da quella estate del 'Novantasei, ad oggi, si sono avvicendate molte stagioni e del mio amico Rocco io non ho più saputo nulla. Alcune notizie...con dei particolari ragguagli sui fatti che lo trasformarono in uxoricida, le ho tratte da qualche vecchio giornale di allora e dalle lettere che scrisse ai familiari durante la sua lunga detenzione: un voluminoso cartaceo che  la sorella Margherita, nel suo ennesimo tentativo di ammorbidirmi nei confronti del fratello, ha voluto sottoporre alla mia attenzione.
   Per una sorta di protesta contro la malasorte che di punto in bianco ne mise insieme di tutti i colori per mutarlo da vittima in carnefice, nel concedere a Rocco tutte le attenuanti morali che all’epoca dei fatti gli negai per troppa inflessibilità, io qui ora ritengo giusto raccontare come egli passò il giorno più iellato della sua esistenza:
   Tornato a casa verso le ore 8,10 del 5 agosto 1981, dopo una notte di lavoro come guardiano notturno in un’autorimessa, il mio fraterno amico trovò la moglie addormentata tra le braccia di Benito Passalacqua, suo cugino di sangue e suo testimone di nozze.
   Descrivere lo stato d’animo di Rocco nel vedere in quel posto ed in quelle condizioni la sua Nuccia...col corpo privo di ogni indumento, anche per chi come me ne conosceva l’anima nelle sue più intime pieghe non è semplice. Non trovando le parole, mi atterrò quindi alle sue registrate deposizioni processuali.
   Alla circostanziate domande di un giudice, in Corte d'Assise, egli rispose che all’inizio gli tremarono le gambe, e che l’urlo terrificante che nelle sue intenzioni voleva indirizzare ai due spudorati amanti gli restò in gola. Dagli occhi...sicuramente iniettati di sangue – di questo io ne sono certo – fuoriuscirono lacrime che sapevano di rabbia e di devastazione mentale; mentre in una penombra da brivido, incapace di sopportare la visione pensò che stesse vivendo un incubo. Volendosene liberare allungò una mano verso gli scompigliati capelli della moglie, con la speranza di non trovarne traccia e di poter così urlare a se stesso “Hai visto? Lei non è qui ma è nell’altra stanza…nel nostro letto!”.
   Ma quel suo gesto – in precedenza sempre delicato e pieno d’amore...se rivolto verso alla moglie – risultò invece tanto rude da provocarne il brusco risveglio. Poi la lite. A dire poco furibonda. Col terzo incomodo che immediatamente si defilò strisciando in silenzio fuori dal letto, come un viscido verme.
   Uscito dal numero civico diciassette di Via Domenico Millelire, dove con la consorte aveva una residenza provvisoria in casa di Benito, verso le ore 8,30 Rocco si mise a camminare per le strade di Torino senza una meta fissa. A passo di carica.
   In condizioni mentali da far paura egli imboccò Via Onorato Vigliani. Poi Corso Unione Sovietica. Quindi Corso Tazzoli. E poi ancora Corso Orbassano fino al Parco Mignon: dove per riprendere fiato si accasciò sulla prima panchina libera, sotto un gigantesco platano.
   Con lo sguardo a perdere tra le foglie del secolare albero, dibattuto tra il perdono per l’infedele moglie...come voleva la sua indole sempre accomodante nei riguardi di Nuccia, e la voglia di una sanguinosa vendetta...come pretendeva il suo orgoglio di maschio tradito, Rocco passò da un dormiveglia pieno d’improvvisi sussulti a momenti di lucida follia in cui voleva disintegrare il mondo. Stato d’animo, quest’ultimo, più che comprensibile se si tiene conto che si trattava di un poco più che ventenne, innamorato pazzo della moglie, sposato da meno di un anno e già cornificato da colui che considerava il più fidato parente di sempre.
   Rimasto senza sigarette, pressappoco intorno alle 11,00 il mio stramaledetto amico s’incamminò verso una tabaccheria di Corso Sebastopoli. Camminava a testa bassa. Senza far caso alle persone che incrociava. Dai suoi saltuari movimenti delle labbra e delle mani…piccolissime smorfie e significativi gesti che tradivano un doloroso travaglio interno, si poteva dedurre che la difficile scelta tra perdono e vendetta si manteneva in bilico.
   Nella rivendita – che già conosceva parchè vicinissima al suo posto di lavoro – il gestore stava commentando con un cliente alcuni dettagli sull’ultima partita della Juventus. Sentendosi dopo alcuni secondi ignorato, egli pensò d’interrompere la ciancia e di ordinare un pacchetto di Nazionali senza filtro: una qualità di sigarette assai più forte di quelle che normalmente fumava...come se volesse avvelenarsi l’anima. Pagò quindi con una banconota di grosso taglio e poi, preso dai disordinati pensieri che ormai lo accompagnavano, uscì dopo avere ritirato un resto mancante di cinquemila lire.
   Al suo immediato ritorno in negozio per farsi dare quanto riteneva fosse un suo sacrosanto diritto il rivenditore non volle sentire ragione.
    ̶  Pagarsi cinquemila e trecento lire un pacchetto di Nazionali non è onesto! – sbraitò molto, seccato dalla posizione assunta dall’uomo dietro il bancone.
   – Giovanotto, ammesso e non concesso che non ti abbia dato l’esatto resto, per quanto mi riguarda non sono assolutamente tenuto a riconoscere errori dopo che il cliente fuoriesce dalla mia tabaccheria. Al riguardo c’è tanto di cartello con su scritto che i soldi si controllano all’istante! Non lo hai letto? – rispose l’altro senza neanche degnarlo di uno sguardo.
   – Ho fatto solo pochi passi! Se crede può controllare nelle mie tasche: si renderà così conto di avermi dato cinquemila lire in meno.
   – Spiacente ma non posso farci nulla. Il cartello è stato messo apposta per evitare ogni possibile discussione. Perciò lasciami lavorare o chiamerò la Polizia.
   – Dalle mie parti non si usano questi trucchi! – gli gridò in faccia Rocco.
   – E tu cos’aspetti? Tornatene al tuo paesello di origine: qui, noialtri non metteremo il lutto al braccio per la tua partenza!
   – Forse lo farò oggi stesso…mentre lei resterà in questa sua grande città a vendere fumo anche a livello umano. E siccome io sono più che certo del suo illecito guadagno, la saluto con un bel vaffanculo moltiplicato tante volte quanto sono le lire che mi sta truffando! – uscì torcendosi le dita e sbattendo la porta per la rabbia, ma tornò subito indietro.
   – E dopo essersi pulito il culo con quel suo cartello si ricordi bene...fottutissimo tamarro3 tutto d’un pezzo, di non dare del tu a chi educatamente le dà del lei! – quindi sparì tra i passanti, dirigendosi in Via Guido Reni ed a seguire in Via Ettore De Sonnaz.
  In Piazza Massaua, quasi al confine con la città di Collegno, si guardò intorno e si accese una delle sigarette comprate a caro prezzo poco prima. Ne aspirò una lunga boccata e dopo averne quantificato il costo, la scaraventò per terra. Al signore che lo stava incrociando, e che scuotendo il capo giudicò lo spreco negativamente, puntandogli il dito quasi all’altezza del viso sentenziò:
   – Paese che vai…caro lei, cartelli che trovi! – lasciandolo di stucco.
   Accantonata mentalmente la disavventura con quel disonesto tabaccaio, e sostenuto dall’idea che il girovagare senza capo né coda lo aiutasse a smaltire gli ultimi pericolosi rigurgiti di bile, Rocco continuò a macinare chilometri e chilometri di asfalto senza mai fermarsi. A volte camminava per inerzia, evitando di proposito le vie del Centro perché fortemente rumorose, e quindi non in linea con la sua voglia di solitudine. Per ore, vagabondò così lungo le più estreme periferie della Città, senza curarsi di niente.
   Quel continuo muoversi alla cieca, da una parte all’altra di Torino, gli servì comunque a riordinare le idee. Prova ne fu che a metà di Corso Casale era ormai giunto alla conclusione di doversene tornare a Crotone. Quella stessa sera. Lui e Nuccia insieme. Ovviamente con l’obbligo tassativo...sia per la moglie che per il cugino Benito, di mantenere il più stretto riserbo sull’accaduto. Una soluzione che oltre a salvargli il matrimonio
 non avrebbe dato pensiero all’anziana madre...già malata grave di suo.
   Che il folle amore per Nuccia avesse quasi cancellato il desiderio di vendetta, a quel punto poteva quasi dirsi cosa fatta, senza la insistente sfiga di Rocco. Senza cioè quel qualcosa d’imponderabile che nel giorno più nero della sua esistenza, fece lo straordinario per rendergli la vita un inferno. Nelle sue intenzioni, infatti, c’era l’immediato ritorno in via Millelire per dire alla moglie di fare le valigie e prepararsi perché col Treno del Sole delle 21,15  sarebbero partiti per la Calabria,
   Strada facendo egli si vide invece, suo malgrado, coinvolto in alcuni fatti che sapevano di gratuito teppismo, di vergognosa questua con sussurrati anatemi, di scrocco quasi ai limiti della violenza e quant’altro. Cose che in una grande città come Torino all’epoca non destavano più scalpore da un pezzo, ma che messe insieme così come furono messe...a ritmo incalzante e per di più a sue spese, contribuirono nel dannargli il corpo e l’anima ancora di più.
   L’incredibile sequela – da sommare al tradimento di Nuccia ed alla fregatura delle sigarette – ebbe inizio nelle vicinanze del Giardino Zoologico di Corso Casale, allorché un ragazzo in bicicletta lo scaraventò per terra e si diede alla fuga: ridendo e mandandolo pure a quel paese come risposta alle sue vibranti proteste.
   – Allora sei pure stronzo! – gridò Rocco al suo indirizzo.
   – C’est la vie, mon ami, c’est la vie! – lo rabbonì un gentile signore, aiutandolo a rimettersi in piedi.
   Non aveva ancora finito di togliersi la polvere di dosso ed eccolo alle prese con una zingara dalla età indefinibile e che aveva assistito alla scena. La raggrinzita vegliarda, di etnia Rom, con una pipa di creta in bocca ed un coloratissimo scialle in testa, sembrava una fuoriuscita dalla Corte dei Miracoli nel romanzo “Notre Dame de Paris” di Victor Hugo...ne aveva tutta l’aria.
   – Mille lire in cambio di questo! – lo abbordò lei, facendogli intravedere furtivamente un pezzo di carta  stretto in pugno.
    ̶  Se credi di rifilarmi il Biglietto della Fortuna, oggi non potevi trovarne uno peggiore di me! – avvisò lui.
   – No, amico, qui c’è scritto il nome e l’indirizzo del ciclista che ti ha investito.
   – Lo hai tirato fuori dalla sfera di cristallo che hai in testa?
   – Io sono una chiaroveggente con forti poteri magici…e se non farai come ti dico i corvi neri della maledizione voleranno sulla tua testa fino alla Terza Luna! – inventò a caso la megera, convinta di scucirgli la banconota.
   Ma quel giorno non c’era null’altro che potesse impensierire Rocco. Il mondo addosso gli era già crollato fin dal mattino e quindi con determinazione si liberò dalla fastidiosa presenza.
   Immediatamente dopo, in Piazza Gran Madre di Dio, venne fermato da un giovane scroccone imbottito di birra fino alla cima dei capelli, un pezzo di marcantonio con due spalle che avrebbero fatto arrossire il gigante della Plasmon...quello che nella pubblicità dei biscottini suona il gong. Costui, per la serie “Avanti Savoia4!” e con in più la convinzione che tutto gli fosse dovuto in virtù dei suoi muscoli, tanto fece finché gli scroccò una sigaretta a mo' di lasciapassare per il quieto vivere.
   A metà del ponte che unisce la piazza su menzionata con Piazza Vittorio Veneto, per un principio di stanchezza, Rocco si fermò ad osservare il Po che scorreva sotto i suoi piedi. Era la prima volta che vedeva il grande fiume così da vicino, e da convinto ecologista se lo aspettava con acque pulite e trasparenti come quelle del Neto o del Tacina...in territori poco distanti da Crotone: dove lui da piccolo andava col nonno a pesca di rane. Ma si dovette ricredere perché, avvelenato a monte dai molteplici scarichi industriali che ne distruggevano l’ecosistema, sembrava una cloaca a cielo aperto. Le zaffate che mandava verso l’alto, erano delle autentiche richieste di aiuto che avrebbero dovuto indurre alla ragione tutti i responsabili di quell’oltraggio alla natura. Invece, come spesso accade quando la stupidità umana nella melma si sguazza, quei nemici del fiume più lungo d’Italia, con signorile distacco, lo lasciavano defluire lento e nero come la pece verso San Mauro; tra l’indifferenza più assoluta di tutta la cittadinanza.
  Da quel momento Rocco cominciò a guardare con occhi assai critici tutto ciò che, di recente, la mano dell’uomo aveva saputo fare per modernizzare la Torino sabauda. E da questo punto di vista, se mille furono le opere passate sotto la sua lente d’ingrandimento, altrettante furono le sentenze di colpevolezza emesse contro i gestori politici della Città. Una città da lui ora vista come un agglomerato urbano di gigantesche proporzioni e che non meritava il titolo di moderna metropoli. Città con modelli comportamentali non più entusiasmanti...come quando ne aveva sentito parlare da qualche disattento visitatore, o dal cugino Benito durante i suoi puntuali ritorni a Crotone per le ferie estive. Agli occhi suoi Torino diventata di colpo una città incantevole solo quando mostrava le sue reali vestigia…riferite alla magnificenza degli antichi palazzi e delle geometriche vie del Centro, ma non quando si confrontava con la modernità di allora; sotto questo profilo, guardando tra le svariate pieghe sociali, lui la riteneva vittima di un blocco mentale strettamente industrializzato…che la manteneva distante dalle ambizioni turistiche delle grandi metropoli europee...cioè una specie di enorme dormitorio. E questo non tanto per scelte politiche calate dall’alto quanto per espresso volere di un padrone locale, quel certo signor Fiat che mandava i torinesi a dormire con le galline e li voleva svegli al canto del gallo...pronti a produrre automobili. In altri termini, lui la vedeva come un grosso centro di accoglienza per un milione di abitanti: nemici della modernità e delle sfavillanti vetrine che si ammiravano nelle metropoli commerciali come per esempio Milano...abbastanza vicina geograficamente ma in realtà distante anni luce: se paragonata alla innata capacità dei meneghini nel rinnovarsi. Il tutto, a suo striminzito giudizio, attribuibile a delle chiusure mentali che facevano della prima Capitale d’Italia una gemma di notevole pregio…incastonata in una falsa montatura fatta di singoli egoismi e di cecità collettiva. Quindi: pollice verso.
   Manifestò qualche indecisione solo di fronte alle magnifiche simmetrie barocche di Piazza Vittorio Veneto, ma fu questione di attimi perché l’intera area era  caoticamente occupata in ogni ordine di posto da molte automobili non più nuove, posteggiate alla rinfusa e messe in vendita da commercianti abusivi. Perciò anche lì: voto insufficiente e pollice verso.
   Con la luce del giorno che già cedeva spazio al buio della notte, gli stessi voti d’insufficienza diede alle luci al neon che caratterizzavano il genere dei negozi, ma questa volta per   mancanza gusto...in certe zone apparivano sovrapposte da sembrare in guerra tra loro...e per di più molte mancanti di  lettere: tanto da impedire una corretta lettura dell’insieme.
   Accompagnato da crampi ai polpacci, dopo aver percorso i sei chilometri di Via Nizza, Rocco era ormai a poche centinaia di metri dalla sua abitazione. In merito alle patite disavventure sembrava fosse giunto alla fine di una giornata da cani, ma  nell’ultimo tratto di Corso Maroncelli si sentì in obbligo di mettere le mani in tasca e sborsare alcuni spiccioli: questo per contribuire almeno in parte – si disse – al mantenimento di una vecchietta mostrante un cartello con su scritto “Sono povera e nessuno si prende cura di me!”.
   Mentre a nord-ovest, il tempo si preparava al peggio con tuoni e fulmini, un altro assaggio di malessere metropolitano lo ebbe all’angolo opposto dal quale si era messo a girovagare in mattinata, tra via Vigliani e Via Millelire. Qui venne affiancato da un giovane pressappoco della sua stessa età, che solitamente
 stazionava in un bar poco distante e che lui aveva già avuto modo di notare nei giorni passati.
   – Ciao, amico! Mi dai l’ora per cortesia? – chiese in falsetto questi, lasciando bene intendere che non era proprio quello il motivo dell’abbordaggio.
   Rocco questo lo capì, e rispose di conseguenza:
   – E’ tempo di andare a casa per la cena…prima che arrivi la pioggia!
   – Ottimo consiglio...per chi possiede una casa!
   – Vuoi forse farmi credere che, così ben vestito, dormiresti all’addiaccio?
   – Per adesso ancora no. Ma quanto prima dovrò trovarmi una sistemazione sotto qualche ponte...visto che sono disoccupato da oltre un anno e non sto più pagando l’affitto!
   – Hai chiesto aiuto a qualche amministratore pubblico?
   – Al Sindaco ed anche alle Dame di San Vincenzo5.
   – Risultato?
   – Qualche monetina e tante belle promesse...diventate col tempo tante belle bugie.
   – Sei sposato?
   – No. Con le donne non ho mai legato perché se la tirano e ti fanno becco alla prima occasione!
   Parole dette senza una verità assoluta ma come schiaffi in pieno viso, per Rocco, che cambiò velocemente discorso:
   – Di cosa vivi adesso?
   – Mi arrangio.
   – In che senso?
   – Se vieni a casa mia, qui dietro, appena girato l’angolo, in cambio di una piccola offerta te lo spiegherò meglio.
   – Continuo a non comprendere!
   – Non credere di umiliarmi fingendo di non capire, amico, perché io di questo ci campo! – fu la secca replica.
   E Rocco all’improvviso capì. Capì che un maschio stava cercando di vendere il suo corpo ad un altro maschio, cioè a lui. Un baratto nuovo e quanto mai incomprensibile per una mentalità come la sua…a marcia unidirezionale, formatasi in una terra che per atavica immobilità  non avrebbe mai stravolto ordini e principi naturali o precostituiti.
   Dal suo punto di vista infatti, oltre a non gradirne il possibile utilizzo, quella offerta gli suonava come attentato all’unico atto sessuale legittimo. Quello, a rigor di logica calabrese, inventato da madre natura per garantire la sopravvivenza dell’umana specie e quindi da non prendere neanche in considerazione. La sua ignoranza in materia era, inoltre, così retrodatata da non immaginare neanche alla lontana che per combattere la povertà si potesse ricorrere ad un simile mercimonio. D’altro canto lui conosceva solo la povertà del Sud. Quella suffragata dalla discreta partecipazione di una collettività, che a memoria d’uomo non aveva mai fatto morire di fame o di freddo nessuno. O meglio: quella vissuta nel decoro del povero che si sente comunque amato e rispettato dall’intero contesto sociale nel quale vive. Non certamente i mille volti dell’emarginazione riscontrabili nelle gigantesche città del nord. Dove l’indigenza del singolo non fa notizia. E dove chi non dispone di un conto corrente – si fa per dire ma poco ci manca – rischia di essere depennato dall’anagrafe e dichiarato dissolto nel nulla.
   Dopo un assolo di pensiero più ampio, Rocco attribuì quel deprecabile modo di sbarcare il lunario a leggi ed abitudini locali tanto partigiane da non garantire al singolo una decente sopravvivenza nei momenti di maggiore difficoltà economica. Una soluzione se si vuole di comodo, ma lesiva verso il più elementare dei diritti umani: la dignità. Questo lo portò alla determinazione, ancora una volta, di mettere le mani in tasca e di offrire al giovane dichiaratosi pederasta per necessità una banconota da cinquecento lire; dandogli però ad intendere, con un eloquente gesto della mano, che non gradiva contropartite di nessun genere, e che bene avrebbe fatto a smammare. Cosa che l’altro fece senza aggiungere parola…visibilmente soddisfatto per la generosa donazione.
   Con quest’altra sgradevole vicenda ad indirizzo esistenziale, dalla quale la Torino ne usciva incapace di garantire a tutti una busta paga in cambio di manodopera, in una sua personalissima quanto ipotetica scala delle eccellenze rispetto al sistema di fraternizzare, dopo aver cercato nei nativi del posto i difetti con la lente d’ingrandimento, Rocco, con assoluta convinzione, antepose a questi ultimi i nativi di Crotone.
   E qui il torinese senza la necessaria dose d’italianità nel sangue, non deve rimuginare contrapposizioni all’ombra del proprio campanile! Facendolo commetterebbe il più grossolano degli errore: ipotecandosi un posto all’inferno accanto a quel suo indegno concittadino venditore di fumo! Tollerando invece, magnanimo, lo smarrimento di Rocco, dimostrerà di amare la sua città nella maniera più giusta...dando una spallata a quel pernicioso razzismo tenuto nascosto ad arte e che ancora in qualche occasione si concretizza.
   Per quanto mi riguarda, conoscendolo da sempre io qui potrei affermare sotto giuramento che Rocco non era un immigrato di facili nostalgie territoriali. La sua momentanea scelta di campo si doveva solo al visto e vissuto nella giornata, e non a legami strettamente geografici. Infatti soleva dire che se gli uomini per genitura  nascono con i confini  nel cuore, lui era nato prima di tutto in Italia, perciò dovendo scegliere tra il capoluogo piemontese e la sua terra di origine non avrebbe saputo a chi dare la preferenza.
   Accantonata ogni avventata presa di posizione su certi delicati equilibri, a questo punto si torna ancora sulla malasorte dicendo che si era fatto buio quando Rocco oltrepassò le prime costruzioni di Via Millelire.  Al numero  diciassette, il portone era aperto. Alzò lo sguardo verso il secondo piano e vide la sua stanza da letto illuminata: segno evidente che Nuccia era in casa. Quindi cominciò a salire le scale, con apparente calma. Il discorso da fare alla moglie per indurla a partire, Rocco se lo era fatto mentalmente diverse volte e sembrava che tutto dovesse filare liscio. Invece le cose precipitarono e adesso cercheremo di capire in quali procelle annaspasse la mente del mio amico, intanto che la malasorte faceva scempio dei suoi sogni 
   Ritenendo Rocco meritevole di ben altra sorte, ora io, prima di passare al resto, voglio rimarcare alcune delle mie attuali convinzioni in merito all’intera vicenda, sottolineando che da giovani si diventa con facilità eroi...incapaci però di accettare determinate sconfitte. Inoltre, dai giovani il mondo è visto come una grande scatola portagioie al cui interno le madri le mogli e le sorelle devono poter risplendere di luce propria e guai a manipolarne i riflessi con delle interferenze esterne...in tal caso i tipi come Rocco ne usciranno sempre perdenti. Per concludere aggiungo che in fatto di sesso i giovani maschi della razza umana, da indomiti frequentatori delle deserte strade di Utopia, di norma rifiutano situazioni paragonabili all’accoppiamento del maschio dominante nel regno animale. Non essendoci quindi per la razza umana obblighi imposti da madre natura, a tutela della specie, ne hanno  ne faranno sempre una questione di scelta tra bene e male: non per niente con quella...se vogliamo sostanziosa offerta in denaro, Rocco concesse ogni possibile attenuante al coetaneo che svendeva il suo corpo; a prescindere dalla vergognosa offerta lui vide il male in chi aveva in precedenza osato comprare la discutibile merce e non in chi la vendeva: assoltosi da solo con quel suo lapidario “Io di questo ci campo!”. E poi...a volerci ragionare sopra anche con l’esperienza della maturità, potremmo forse disinvoltamente  dare un  prezzo alla  dignità  umana? O altri lo
potrebbero fare senza tingersi la coscienza di nero? Io ricordo che persino lo stesso Rocco, spesso molto abile nel darmi qualche punto in fatto di certezze ai tempi del Ginnasio, un giorno, disquisendo su cosa fosse in realtà la differenza tra bene e male mi disse: “Ricordati che il maligno è chi vende la propria anima ma chi gliela compra!”.
   Il discorso da fare alla moglie per indurla a partire se lo era già fatto mentalmente diverse volte, e gli era sembrato che tutto dovesse filare liscio. Invece sulla prima rampa si bloccò perché al pensiero che avrebbe potuto trovarsi faccia a faccia con Benito, il sangue gli montò alla testa. I lineamenti del viso si fecero duri. Lo sguardo tagliente. Poi un odio profondo verso tutto e verso tutti invase la sua mente indebolita dalle troppe attenuanti concesse in giornata...e qui si ruppe l’ultimo filo che lo teneva ancora legato alla ragione.
   Il resto è cronaca processuale che narra di un furioso litigio tra marito e moglie, con quest’ultima che non voleva tornare in Calabria. Di un acuminato coltello lasciato casualmente sul tavolo da cucina ed impugnato da Nuccia per difendersi da Rocco che tirava schiaffi come un forsennato. Di caduta accidentale della donna sull’arma. Del marito che gliela estrae dal cuore nel tentativo non riuscito di tenerla in vita. Di Benito che si salva perché aveva preferito starsene con gli amici al bar, lasciando che Nuccia se la sbrigasse da sola.
   Per dare una diversa profondità al caso, oggi mi sembra opportuno riportare integralmente la lettera che sua madre scrisse alcuni giorni prima del processo a Rocco, detenuto nel carcere circondariale di Torino. Ecco il testo integrale:
   "Carissimo figlio, il mio precario stato di salute in questo delicato periodo della tua esistenza, non mi permette di esserti vicino e di assisterti come vorrei...e Dio solo sa quanto questo mi addolora! Ma l’età è quella che, perciò devi farti coraggio perché alla fine dei conti hai difeso la tua onorabilità.
   Per quanto riguarda la tua sconsolata mamma, sappi gioia mia che giorno dopo giorno le forze mi stanno abbandonando, e sento che non ti rivedrò mai più. Ma tu non devi prendertela se nostro Signore mi ha chiama: io in cielo raggiungerò la buon’anima  di tuo padre e da lassù, insieme alla Madonna di Capo Colonna  saremo in tre a proteggerti.
   Adesso devo smettere di scrivere perché ci vedo poco e mi sta prendendo un forte mal di testa: la prossima volta ti farò scrivere da tua sorella Margherituzza. Tu intanto promettimi di startene tranquillo: i signori Giudici che vaglieranno il tuo caso, dovranno applicare l'articolo del Codice Penale che prevede il delitto d’onore.
   Per quanto riguarda il mio punto di vista…avendo avuto tu a che fare con una puttana, condivido appieno il tuo gesto…mi dispiace solo che la tua sacrosanta vendetta ha risparmiato quel mio disonesto nipote, nonché tuo cugino e tuo compare di anello…miserabile bastardo! Per il resto, figghicì6, io posso soltanto raccomandarti di essere sempre buono e di non fare mai male a nessuno.                         
                                                                                                                            Ti bacio e ti benedico
                                                                                                                                     tua madre
Crotone, 21 ottobre 1985"

                                               
    Di una sua eventuale innocenza non se ne parlò mai durante il processo. Né si menzionò il delitto d’onore in quanto, poche ore prima della morte di Nuccia, l’articolo inerente era stato depennato dal Codice penale. Condannato a diciotto anni di carcere e mandato all’Asinara per scontare la pena, Rocco ci restò quindici anni perché tre gli furono amministiati. Dopo la  scarcerazione il suo primo pensiero fu quello di portare fiori sulla tomba di Nuccia…fredda testimone di una vergognosa dimenticanza da parte di Benito: promosso nel frattempo Capoufficio con mansioni di particolare fiducia.
   Carmela Abruzzese, la madre, si rimise magnificamente e   continua ad inghiottire fiele per la parziale vendetta del figlio. Io so di aver perso un grande amico…e visto che di questi tempi scarseggiano, scusate s’è poco!

                                                           *************** 

Barriere

   Il cav. Anacleto Landi, fondatore della Frescolat Spa, una tra le più note case produttrici di latticini dell’intera Penisola, mise la freccia e si portò sulla corsia di destra per una sosta d’obbligo alla stazione di servizio.
   – Faccio il pieno e ripartiamo subito…senza stare più del necessario tra questi beduini! – urlò quasi alla moglie, seduta dietro.
   Luisa Mantovani non fiatò. Inchiodata allo schienale dalle strette cinture di sicurezza l’anziana signora, per la dannazione del marito…col quale aveva avuto in precedenza un sostenuto battibecco, non distolse lo sguardo dall’assolata campagna laziale.
   – Con questo traffico e se tutto filerà liscio – disse ancora l’uomo e continuò – arriveremo a casa giusto in tempo per la cena. Oh...una cosetta poco impegnativa, s’intende! – concluse  smorzando i toni.
   Da quando avevano lasciato il raccordo anulare della Capitale per imboccare l’Autostrada del Sole, diretti a Nord, nel tentativo di rendere meno stressante il viaggio, Landi cercava con delle uscite estemporanee d’intavolare un qualsiasi straccio di dialogo con la moglie. Ma l’irriducibile signora, quasi stesse interpretando un’assurda commedia diretta da un dispettoso regista, lo lasciava parlare da solo. Un comportamento a dir poco insolito, considerata la sua naturale predisposizione alla ciarla.
   Giunto sulla piazzola gremita di gente il Cavaliere accostò la Jaguar all’unica pompa libera, spense il motore…e per non fare poi la figura del gonzo in terra straniera – come considerava lo Stivale da Firenze in giù – scese per controllare a vista la quantità di carburante che di lì a poco avrebbero erogato nel serbatoio della sua autovettura.
   – Il pieno di Super senza piombo! – ordinò con piglio autoritario all’uomo delle benzine accorso a servirlo.
   – Subito, Dotto'!
   – Giovanotto, non sono dottore né farmacista e neanche ingegnere! Aggiungo che se non fossi quel che sono, nella vita avrei senz’altro fatto il controllore. Quindi occhio ai numeri, perché io pagherò solo il giusto dovuto senza l’aggravante del pizzo!
   – Non capisco dove vuole arrivare! Può essere più chiaro?
   – disse alquanto risentito il benzinaio, guardandolo fisso negli occhi.
   – A Torino, giovanotto! Io voglio semplicemente arrivare nella mia Torino nel più breve tempo possibile…e senza farmi prendere per il culo da queste parti col trucco del conta litri in posizione avanzata rispetto allo zero iniziale!
   – Se è tutto qui, le faccio notare che il trucco del conta litri lo hanno inventato proprio nelle sua Torino...siamo anche noi capaci di leggere giornali! Per il resto non sarò certamente io a trattenerlo. Anzi, per quanto mi riguarda prima si rimette in marcia e prima arriva.
   – Cos’è…un invito a smammare? – chiese Landi, col piglio del capo tribù intenzionato a domare verbalmente quel nessuno che osava tenergli testa.
   – Io lo definirei un buon consiglio: tenuto conto che da queste parti, per chi si agita prima dell’uso non c’è trippa per gatti7!
   Al Cavaliere le taglienti battute del giovane non piacevano proprio, quindi lo squadrò da capo a piedi per quantificarne lo spessore in base al suo metro di giudizio. Per lui infatti gli italiani si dividevano in “ricchi con tre palle”...a sua immagine e somiglianza, “benestanti al pascolo”...signorotti sfaccendati con redditi garantiti dal facile accesso al denaro pubblico o dai tanti sistemi speculativi, “operai a testa in giù”...gente capace esclusivamente di produrre ricchezza per gli altri, ed infine  quelli chiamati in dialetto torinese “fagnani”...scansafatiche di professione.
   Non disponendo di dati certi per collocare il benzinaio nella sua particolare scala dei valori umani, e per non lasciargli l’ultima parola lo redarguì tutto teso come un generale in parata, declamando a chiare lettere il suo stato sociale.
   – Un buon consiglio a me? Giovanotto...voglio farti notare che davanti ai tuoi occhi hai un piemontese di settima generazione; nonché un industriale con un reddito che supera di alcuni milioni inferiore a quello dell’Avvocato...e scusa tanto s’è poco!
   – Pure il mio reddito, stando a quanto mi è capitato di leggere sui i giornali lo scorso anno, è superiore a quello di tanti avvocati italiani…ma questa degli orefici e degli avvocati e degli industriali è una storiella tutta italiana.
   – Il mio riferimento riguarda l’avvocato Agnelli! Sai almeno chi è Giovanni Agnelli...il padrone della Fiat...uno degli uomini più ricchi del Pianeta...ovviamente dopo di me!
   – Non lo conosco e non m’interessa, però so bene chi sono io: Romoletto...er mejo der Testaccio8, dottò!
   – Ti ripeto che non sono dottore. Ma tu a quanto pare sei duro di comprendonio, cosa del tutto normale: specialmente in questi paraggi! E la trippa per gatti tienitela per te: io sono abituato, quando proprio mi va male, a mangiare agnolotti e bagna càuda9!
   Una fortuita sbirciatina alla moglie del Cavaliere portò Romoletto alla conclusione che lo scorbutico cliente era stato morsicato da una tarantola. Così per non rovinare quello che per lui era diventato un piacevole siparietto, scelse la via del silenzio.
   Il Re della fontina, invece, voleva continuare e la prese un po' più con le molle:
   – Io non ce l’ho con te, caro! Sono infastidito dalla facilità con la quale tutti indistintamente, da queste parti, dispensate titoli ed onorificenze come fossero bruscolini. Non che io non ne sia degno, beninteso!
   Con quest’ultimo che friggeva in attesa di risposta – il benzinaio rimase nel suo, e col sudore che gli imperlava la fronte continuò a servirlo, pulendogli anche i vetri dell’auto.
   Quel fine giugno in tutta la provincia romana si marciava all’insegna del caldo appiccicoso e sudaticcio. Nell’aria quasi opaca per l’eccessiva umidità, ristagnava un forte odore d’erba falciata di fresco. L’irradiazione solare, disidratando il manto stradale provocava baluginanti vapori che indolenzivano gli occhi, tal per cui un folto numero di automobilisti invece di rimettersi subito in viaggio, dopo il rifornimento, cercavano un po' di frescura sotto la lunga tettoia in canne sovrastante un enorme parcheggio.
   A dare l’idea del malessere palesato dalle persone presenti in quel forno a cielo aperto, era la fiacca: in grado di ridurre allo stretto necessario la sempre traboccante gestualità degli italiani. Anzi, se non fosse stato per i tratti somatici, tipicamente latini, gli astanti si sarebbero detti flemmatici sudditi della corona britannica…tanto sapevano d’essenziale i loro movimenti. E col frinire delle cicale, che davano una stridente sonorità all’insieme, sembrava proprio di essere nel regno del surreale.
   Fra tanto torpore solo una coppietta d’innamorati non badava a spese, in fatto di energie. Lui, molto giovane e di sicuro non ancora maggiorenne, aveva appena acquistato un luccicante bracciale “marca napoli10” da uno di quei soliti marpioni presenti in ogni autogrill che si rispetti. Convinto di aver comprato l’oro al prezzo delle patate, ora se la tirata da dio e dopo aver chiesto ed ottenuto un interminabile bacio  dalla sua bella, ora la rincorreva sotto la canicola, pretendendo chissà quale altro compenso in natura. Agile quanto una gazzella, la ragazza, invece, correndo tra le autovetture in sosta non si lasciava ghermire dal trafelato spasimante…per la buona pace dell’immancabile moralista di turno…un vecchio decrepito che osservando con goduria la scena ne immaginava tutti i possibili risvolti…mentre con parole poco credibili esternava amarezza e rimpianto per la perduta morigeratezza di un tempo.
   Tutti gli altri spettatori – specialmente i più disincantati – si sarebbero dichiarati al contrario disposti volentieri a pagare di tasca propria pur di osservare i due ragazzi all’indomani, quando il finto monile, ossidandosi, avrebbe mostrato la sua vera faccia.
   – E' l’ultimo modello? – chiese Romoletto, riferendosi alla Jaguar.
   – Non la vede? Comprata appena il mese scorso...facendola arrivare direttamente dall’Inghilterra!
   – E' splendida!
   – Roba da intenditori e non alla portata di tutte le tasche.  ̶  si inalberò, Landi.
   – Questo lo so anche io!
   – Bisogna dire che gli inglesi quando ci si mettono fanno le cose per benino…quasi quanto noi settentrionali!
   In un periodo in cui l’Unità Nazionale veniva messa in discussione da strani fermenti politici di natura separatista, in grado d’alimentare quel demenziale razzismo da basso impero ancora vivo e vegeto in alcune province italiane, la battuta era delle più ignoranti e maligne.
   – Acqua e olio? – tagliò corto il benzinaio, intenzionato a non toccare l’argomento.
   – Tutto a posto…grazie! Piuttosto una mezza controllatina alle gomme: col caldo che arriva qui dalla vicina Africa non si sa mai. – rincarò la dose, Landi.
   Nato in uno dei quartieri più popolosi e caratteristici della Capitale, Romoletto era poco più che trentenne. Aveva capelli neri e ricci, con occhi dello stesso colore. Dei muscoli da gladiatore, evidenziati da una camicia estiva a mezze maniche, semitrasparente, che in epoche remote avrebbe intimidito lo stesso Marte: dio della guerra.
   Col sudore che dalla fronte gli colava a rivoli lungo tutta la faccia, costringendolo spesso ad asciugarselo col dorso delle mani per non interrompere il lavoro che stava svolgendo, egli fu rapido e meticoloso nel mettere a punto la pressione dei pneumatici. Si dimostrò pure riverente verso la moglie del Cavaliere: omaggiandola con un grazioso inchino allorché si venne a trovare a lei vicino, durante il servizio.
   Ma il suo gesto doveva valere, indicativamente, quanto un saluto di pragmatica, cioè di quelli imposti dalla compagnia petrolifera che lo stipendiava. Infatti non si scompose per il mancato cenno di gradimento da parte della madama piemontese. Anzi, guardandone i tirati muscoli del volto pensò che marito e moglie…creati ognuno per proprio conto dal Padreterno, doveva averli di sicuro accoppiati Lucifero per innervosire quanti avessero avuto la sfortuna di sbatterci il muso contro. E forte di tale convinzione incrociò le dita in segno scaramantico.
   Da qualche parte, però, doveva esserci scritto che la diatriba tra lui ed Anacleto Landi non era da considerarsi chiusa e lo scongiuro non bastò. Sta di fatto che, ultimato il controllo delle gomme, nel consegnare le chiavi del serbatoio al legittimo proprietario il nerboruto benzinaio accarezzò il cofano della lussuosa vettura, dicendosi a mezza voce:
   – Cascasse il mondo, un giorno o l’altro anche io mi toglierò un simile capriccio!
  Quali furono gli immediati pensieri del facoltoso industriale dopo un’uscita del genere, non è dato saperlo perché non li espresse. Parlava però chiaro il suo viso: diventato paonazzo all’istante. Forse in quel momento dovette chiedersi con quale coraggio, un essere tanto misero da mettere in fuga finanche il Poverello d’Assisi, avesse potuto mirare tanto in alto. O forse, in quanto terrone11, dovette addirittura immaginarselo tanto stupido da ritenersi tipo da Jaguar: status symbol di uomini come lui...nati per sovrastare buona parte dell’umanità. Certo è che ritenne quelle sussurrate parole una bestemmia. Giungendo infine alla conclusione, peraltro scontata, che quell’irrispettoso blasfemo andava ricollocato nel suo naturale ambiente, con un preciso colpo da knoc-out.
   – Se fossi in te camminerei con i piedi per terra, visto che per volare ci vogliono le ali…che non hai! Senza contare che questo giocattolino – continuò battendo col palmo della mano sul tettuccio dell’auto – costa tanti soldi quanti ne servirebbero per l’acquisto di un appartamento...e che per metterli insieme dovresti fare tanti di quei pieni di benzina che ti ci vorrebbero almeno otto vite: una più dei gatti!
   Romoletto inghiottì amaro, perché in quel periodo la sua situazione economica lasciava molto a desiderare. In più, entro quattro settimane doveva lasciare libero, per finita locazione, proprio l’appartamento in cui viveva con la moglie e due bambini piccoli. Trovarne nella Capitale un altro in affitto a prezzi modici era difficile come fare un terno al Lotto senza giocarne i numeri. Ma il non sapere dove avrebbe risistemato la famiglia. non bastò a frenargli la lingua.
   – Colpito ed affondato, Dotto'...come nel vecchio giochino della battaglia navale! – gli rispose con sarcasmo guardandolo in faccia.
   – Bravo! Prendo atto che sai anche fare lo spiritoso.
   – Se vuole posso anche raccontargli un po' dei miei guai, annunciandole che mi hanno dato lo sfratto e che quanto prima finirò in mezzo alla strada con tutta la famiglia! E' contento?
   – La cosa non m’interessa…anche perché non sono io la causa delle sue disgrazie!
   – Delle mie magari no, ma di quelle riguardanti qualche altro povero cristo nel suo ricco Piemonte, mi sa tanto che... – cercò d’insinuare Romoletto, quasi certo di quel che diceva.
   A giudicare dall’espressione degli occhi, sulla battuta a mezz’asta, Landi dovette sentirsi pizzicato in flagrante e con le mani nel sacco. Infatti, da quando leggi studiate apposta per favorire una comoda speculazione sulle case…studiata come miglior sistema per arricchire alla svelta, anche lui si era dato un gran da fare in tal senso. Più nello specifico, sfruttando con determinazione l’incivile pratica degli sfratti selvaggi, dopo l’abolizione del blocco dei fitti, in pochi anni, egli era riuscito a triplicare il valore in soldi dei suoi tantissimi appartamenti sparsi ovunque nella provincia torinese. Conoscendo quindi con precisione l’andazzo legato a questo tipo di profitto, invece che calarsi nei panni dell’ennesima vittima, a lui di fronte, il ricco industriale gli mise il dito nella piaga:
   – Allora comprati una casa invece di andare per trote in acque salate…sognando ad occhi aperti una Jaguar!
   Con le lingue che tagliavano più delle spade, tra il logorroico padano ed il figlio della stirpe dei Cesari era ormai guerra parlata. Perciò il seguito fu pressoché inevitabile.
   – Lei sta filando della lana caprina! – rispose Romoletto.
   – Voi del Sud non sapete fare neppure questo!
   – Per fortuna! Almeno così evitiamo di alzare barriere come fate voialtri al Nord...dove solitamente non riuscite a vedere neanche chi vi cammina a fianco.
   – Con la vostra linguaccia, a me piacerebbe che da Firenze in giù le tue barriere diventassero confini!
   – Niente confini, Dotto'! Le vostre sono e restano soltanto barriere senza senso…le stesse che v’impediscono di crescere a livello umano.
   – Visto che secondo il tuo parere io non sarei cresciuto a livello umano, sappi che in questo momento, hai di fronte a  te un capitano d’industria, nominato di recente Cavaliere del Lavoro. E dato che dalle mie parti non siamo tutti dottori, come sto cercando di farti capire inutilmente da un pezzo, dimostra almeno un po' di rispetto per il titolo onorifico datomi dal Presidente di questa Repubblica...voluta purtroppo all’inizio da noi piemontesi, se non ti crea molto disturbo chiamami semplicemente “Cavaliere”!
   – Barriere sempre più alte, signor Cavaliere del Lavoro dottor Anacleto Landi!
    ̶  Sono anche il maggiore azionista e l’Amministratore Unico della Frescolat Spa: il massimo della moderna tecnologia nella lavorazione del latte! – il Cavaliere ormai straripava.
   – Allora le barriere diventano di mozzarelle…sperando che almeno queste ultime siano buone! – il benzinaio aveva invece preso le misure all’iracondo signorotto e ci andava a nozze.
    – Le mie mozzarelle sono le migliori in commercio e fanno bene alla salute perché magre! Al contrario delle vostre: grasse a tal punto da far salire alle stelle il colesterolo.
    – Mi levi una curiosità! Mi sbaglio o lei vendeva veleno prima di fare il formaggiaio?
    – Io a dieci anni…e fino alla tua età, pedalavo dal mattino alla sera portando bottiglie di latte per le vie di Torino con un triciclo scassato! Senza contare che da maggiorenne, volendo, avrei potuto comprarmi un bel furgone nuovo perché avevo già i soldi da parte!
    – Un bel culo. Altro che mangiare pane e cicoria bollita!
    – Volgarità a parte, vista la fonte, sarebbe meglio che tu lasciassi la soddisfazione di un simile capriccio...se così vuoi chiamare questo capolavoro della tecnica, a quanti, come me, hanno sudato fin da piccoli le canoniche sette camice! – e con la mano  diede un colpetto al cofano della Jaguar.
    Se Landi pensava di giustificare moralmente le sue enormi ricchezze col duro lavoro svolto in gioventù, Romoletto, che di
 camice ne aveva sudate e ne sudava settanta volte sette, era sicuro di meritare almeno l’onore delle armi. Quindi continuò imperterrito, sulla stessa falsariga.
   – Sarà quel che sarà, ma io alla fine mi regalerò un’auto esattamente come  questa...se non migliore!
   Seguì una pausa che fece pensare alla fine di quel poco edificante duello verbale. Invece il muro delle incomprensioni venutosi a creare tra il piemontese tutto lavoro e capitale da una parte, e l’indomabile romanaccio dall’altra, a conti fatti non era ancora alto abbastanza…perché stavano riaffilando le lingue per dirsene di peggio.
   – Quanto pago? – domandò il Cavaliere mettendo mano al portafoglio.
   – Trentaquattromila e ottocentocinquanta lire. Se vuole può leggere sulla colonnina…così vedrà che da queste parti non gli abbiamo rubato neanche una lira!
   – Ecco trentacinquemila lire, tieniti mezza gamba12 e dammi il resto!
   – Signore fino in fondo! – commentò il sanguigno figlio del Sud.
   – Puoi ben dirlo senza fare quella faccia da rintronato! – fu lesto nel ribadire il Cavaliere.
   Lo sguardo adesso mirato di Romoletto, mentre cercava di capire come mai lo scorbutico cliente aveva deciso di lasciargli la mancia dopo le numerose parole al fiele, era diventato l’immagine dello stupore e della confusione. L’improvvisa metamorfosi dovuta non alla mezza gambetta...che a conti fatti poteva anche starci, quanto al significato ultimo delle cento lire pretese a pareggio del resto. Perché se quel tizio aveva deciso di fare il bel gesto, dal suo punto di vista tanto valeva farlo fino in fondo: lasciandogli cioè tutte le centocinquanta lire…cifra che tutto incluso non poteva certo impensierire un riccone di quella fattispecie.
   Landi invece sembrava sul punto di fare a botte con se stesso! E questo parchè lui...non avendo mai dato una lira di mancia a chicchessia, senza trovare una soddisfacente risposta adesso si chiedeva cosa mai gli era capitato: per venir meno ad una delle sue più consolidate regole di vita.
   Ma se la perplessità del Benzinaio poteva essere facilmente chiarita pensando alla messa a punto delle gomme, nessuno in quel preciso contesto sarebbe stato mai in grado di dare il giusto chiarimento alla domanda che si era posto Landi! Volendo risicare una mezza chiave di lettura si potrebbe azzardare che a distanza di anni, sentendosi moralmente in debito per avere ingrossato il numero degli sfrattati, quella mezza gamba poteva essere vista come una sorta di volontaria tassazione a favore della categoria…Romoletto compreso mentre le cento lire di resto erano sicuramente a garanzia dei suoi immutabili principi in materia di mance. In altre parole: una specie di compromesso sui generis per salvare capre e cavoli! A supportare la prima tesi poteva starci il consiglio che diede al benzinaio:
   – E comprati una casa, ragazzo, dammi retta!
   Le parole del Cavaliere non erano più da scartavetrare, come in precedenza. E probabilmente se non fosse stato per i venti dell’incomprensione fuorusciti dal vaso senza tappo di Pandora e che scompigliavano i pensieri del romano...diventato col susseguirsi delle battute sempre più bellicoso perché ferito nell’orgoglio, forse tra i due ci sarebbe stato un finale con il calumet della pace a portata di mano. Ma Romoletto, sull’orlo di una crisi di nervi non colse le sfumature ed in perfetto romanesco, puntandogli l'indice all’altezza del naso, ruppe gli argini:
   – A nonnè, se credi che co mezza piotta13 nce se pò comprà casa, fatte recoverà ar manicomio!
   – Non pretenderai che debba comprartela per intera io?
   – Nun ce semo capiti, Dotto'! Qui se ce sta uno che pò pijà per culo quarcuno quello so io!
    – Se non ti soddisfa l’obolo, mettilo qua!
    Landi non aveva ancora finito di stendere la mano per farsi restituire la mancia, che Romoletto l'aveva già tirata fuori dalla saccoccia.
    – Tieh…e finimola co' sta burinata14 der cazzo! – rispose a denti stretti e con disprezzo il  romano, dandogli anche del tu quasi a rafforzare quel concetto espresso in precedenza sulla trippa per gatti.
    A vederlo mentre gli restituiva la moneta, il romanaccio dal sangue caldo sembrava un gallo da combattimento pronto a spennare con un balzo l’astioso cliente....e lo avrebbe fatto  volentieri, rischiando grosso. Buon per lui che non ebbe il tempo di mettere in atto i suoi proponimenti perché dovette correre a rifornire di gasolio un camionista in attesa, vicino ad un'altra colonnina: il che gli valse la salvezza del posto di lavoro.
   Rimasto senza interlocutore, l’industriale torinese risalì sulla Jaguar e, sgommando, riprese a macinare asfalto in direzione nord.
   – Quel terroncello si è permesso di rifiutarmi la mancia! – si lamentò con la sua signora.
   Più che mai irrigidita nella sua posizione, Lei non rispose e continuò a fissare oltre il finestrino...indifferente. E quando il marito, dopo circa un’ora, cercò d’incrociarne lo sguardo buttando gli occhi nello specchietto retrovisore, la madama, anche se all’interno dell’autovettura l’aria condizionata era in funzione, restò col capo a diretto contatto col vetro tirato leggermente giù.
   Mancavano ancora duecentocinquanta chilometri a Torino e la Jaguar, guidata da Landi con stupefacente abilità e prontezza di riflessi malgrado gli anni – aveva già superato da un pezzo la sessantina – filava a tutta velocità, quasi sempre sulla corsia del sorpasso.
  D’altronde lui non vedeva l’ora di arrivare a casa. Prestando infatti fede ad una delle sue più ripetute affermazioni, lontano dalla Mole15 diceva di sentirsi come una orchidea di rara bellezza in mezzo alle ortiche. Un detto che tirava fuori ogni volta che paragonava Torino – impagabile per la sua bellezza e per il suo quieto vivere – alle altre grandi città del mondo: da lui visitate in precedenza per affari e descritte dopo ogni rientro in azienda ai suoi dipendenti, come luoghi decisamente invivibili per i troppi rumori e per le soffocanti costruzioni: attaccate le une alle altre.
   Ma questo suo generalizzato disprezzo per tutto quello che non era di matrice torinese, Landi lo esternava con maggiore incisività una volta al mese. Sempre di buon mattino, appena sceso dal letto. Quando col bello o col cattivo tempo doveva mettersi al volante dell’auto per accompagnare la moglie a  Roma...e guai ad inventare scuse per rimandare la partenza: in tal caso lei tirava fuori tanti di quei malanni da ospedalizzare la casa. Questo accadeva puntualmente da circa un anno, cioè dopo il matrimonio con un principe del foro capitolino della figlia Clotilde...Clody per la mamma.
   Una soluzione alternativa all’automobile non era possibile parchè la moglie, pur non avendo mai preso un aereo e neppure un treno in tutta la sua vita, giurava di patirli entrambi. Perciò appena Luisa gli chiedeva “Facciamo una capatina da Clody?”, al recalcitrante Anacleto, anche se il termine “capatina” usato per definire il faticoso viaggio di andata e ritorno da Torino a Roma ormai lo odiava persino sotto il profilo fonetico, non rimaneva che prepararsi a partire.
    Una sola volta era riuscito a rinviare di alcuni giorni la partenza, abbindolando la moglie con la scusa di un dolore al braccio tanto forte quanto inesistente. Luisa però se ne accorse e subito si vendicò, rendendogli immangiabile lo stracotto di bue: il piatto preferito dal Cavaliere.
    Dopo il tentativo andato a male, per non subire ritorsioni, di nessun genere, Landi si assoggettò all’idea della capatina. In fondo sapeva benissimo che minimizzando la considerevole distanza tra Torino Roma, la scaltra consorte, così facendo, sperava d’invogliarlo a partire senza i soliti mugugni.
   Chilometri a parte, sarebbe comunque sbagliato pensare che il gran capo della Frescolat non desiderasse rivedere Clotilde almeno quanto la moglie. Per quella ragazza, unica erede delle sue non più quantificabili fortune, il Cavaliere stravedeva. La sola nota negativa – ed era di pubblico dominio – stava in quel matrimonio da parte sua impensabile. Infatti non riusciva a capire perché…con tanti maschi piemontesi, la sua cita16, si era presa un marito romano...razza invisa per uno come lui...nato e cresciuto ai piedi delle Alpi...abituato fra l’altro a pagare le tasse fino all’ultima lira, per giunta, con una tessera onoraria di appartenenza al movimento politico Mac Piemunt17, fondato da un certo Gremmo e consorte.
   Per tutte queste contrarietà, quando il ricco torinese parlava del genero esordiva premettendo che era nato aldilà della Linea Gotica...il confine tra civiltà e barbarie. Ad ogni rientro da Roma, invece, non si stancava mai di ripetere che da Firenze in giù l'Italia era da vendere agli Arabi. E che i Napuli18 per poter essere accettati in una società civile, bisognava prima educarli con la frusta.
   Da notare che in queste sue filippiche Landi aveva quasi sempre come antagonista l’erudita Luisa. Laureata in Scienze Politiche e profonda conoscitrice  dei particolari che portarono all’unità nazionale, la donna si ergeva a paladina del Sud Italia e dei Meridionali con cognizione di causa: riconoscendo a questi ultimi delle doti che a suo dire venivano spesso ignorati in malafede, anche dal marito.
   Ultimamente, poi, la Mantovani difendeva con accanimento queste sue convinzioni. Arrivando pesino alle offese verbali con chiunque manifestasse opinioni dettate da risentimenti razziali e non dalla ragione...ne sapeva qualcosa proprio il suo Anacleto, specialmente in occasione delle ormai inevitabili capatine da Torino a Roma e viceversa. Allorché gli argomenti d'urto si moltiplicavano in ogni cantone.
   Questa volta il duro scontro verbale tra moglie e marito era cominciato al ritorno verso casa, all’imbocco dell’Autostrada del Sole in direzione Nord. A causarlo era stato un tizio dal marcato accento siciliano che, in barba alla decenza, si era denudato fino a restare in costume da bagno di fronte ai tanti automobilisti fermi in coda al casello.
   Ignorato da tutti lo sfacciato spogliarellista aveva fatto però fatto storcere il naso al Cavaliere, che tirato giù il finestrino stava per dirgliene quattro, quando Luisa lo convinse a farsi i fatti suoi: strattonandogli con forza la camicia e dichiarandosi divertita per la piccante scenetta causata dal caldo.
   La dura intromissione della moglie...per quanto la canicola avesse potuto o meno influire nelle di lei convinzioni, a Landi non piacque. Cominciò quindi col dirgli che un torinese, per rispetto verso se stesso e verso gli altri, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. A seguire ci fu una battuta al pepe di Luisa ed una controbattuta rabbiosa di Anacleto, che mal sopportava le vedute contrarie alle sue. Così, da una parola all'altra, si era passati alla diversa educazione e al diverso senso del pudore che, a sentire Landi, facevano dei Settentrionali una razza superiore rispetto ai Meridionali. Quindi la lite senza risparmio di maligne frecciate appena si arrivò ad uno Stato Piemontese scisso dal resto d’Italia…auspicato da lui, contro una grande indivisibile Italia…voluta da lei. Una lite che diede il via all’ermetico mutismo della donna.
   Anche durante l'ultimo tratto di strada Luisa non spiccicò parola, esasperando ancora di più il rubicondo Anacleto. E non che nel frattempo fossero venuti a mancare gli spunti per una delle loro animate dispute! Ci sarebbe stato da dire, per esempio, con uno dei finestrini anteriori che lui apriva e chiudeva in continuazione solo per farle dispetto. Oppure esprimere pareri sui tanti pirati della strada che infilavano un sorpasso dietro l’altro, sia a sinistra che a destra. Per non parlare della parte collinosa della Liguria…che bene avrebbe fatto il buon Dio, essendo loro due nativi di Trino Vercellese, a piazzarne almeno una minima parte in quel natio pantano coltivato a riso: una tavola piatta e senz’anima come la moglie quando alzava la mutria...a sentire lui le volte che andava a sbattergli  il muso contro.
   Con questi pensieri Landi lasciò la provincia astigiana. Il mutismo della moglie nel mentre si era sempre più consolidato e lui, avendole provate tutte, non sapeva cos’altro escogitare.
   Alle porte di Torino si accese l’ennesima sigaretta e cambiò tattica:
   – Forse questa volta abbiamo oltrepassato i limiti! Non ti pare?
   Se la moglie fosse o meno dello stesso avviso non lo disse, e lui con maggiore umiltà ci riprovò ancora:
   – E dillo che sono un vecchio bacucco capace soltanto di alzare steccati…o barriere: come diceva quel testone di un romano!
   Ma neanche questa volta, dopo essersi vergognosamente prostituito, il miliardario Anacleto Landi, Cavaliere del Lavoro di fresca nomina,  ottenne risposta dall’arcigna Luisa.
   Giunto a casa...una magnifica dimora ottocentesca,  l’uomo posteggiò la sua lussuosa vettura nel spiazzale antistante il porticato d’ingresso e scese.
   Al maggiordomo che gli diede il bentornato disse di dare ordini alla servitù affinché portassero in casa i bagagli. Poi aprì la portiera per aiutare la moglie a scendere. Lei però non si mosse: era morta da oltre sette ore: come certificò il medico legale alle ore 19,00 del 26 giugno del 1994.

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Figghiu i gatta surici pigghia

   Almeno per quanto riguardava la parte ionica della Calabria, le previsioni meteorologiche del colonnello Bernacca potevano dirsi azzeccate in pieno: termometro che sfiorava i quaranta gradi all’ombra, tasso d’umidità oltre il massimo storico, mare assolutamente privo di una qualsiasi increspatura, mancanza assoluta di quella piacevole brezza che nei giorni passati aveva reso più sopportabile il caldo, cielo senza nuvole. Si viaggiava, insomma, con il fazzoletto in mano per impedire al sudore d’irritare gli occhi!
   Sotto raggi che avrebbero cotto due uova al tegamino senza neanche dover ricorrere al fuoco, distesa al sole, la baronessa Mafalda si abbronzava e tra un girar di pancia e rigirar di schiena passava e ripassava il suo traballante matrimonio al setaccio.
   Dopo più di tredici anni di vita coniugale all’insegna della più assoluta incomprensione, la nobildonna ormai vedeva nel marito la sua Waterloo e cercava soluzioni a costo zero; cioè senza dover pagare l’obbligatorio tributo in pettegolezzi che in ogni angolo di Crotone, in casi di nozze andate a male, era una consolidata pratica portata avanti da tutti fino alla nausea.
   Ma cosa poteva inventarsi l’imperscrutabile signora? Quale soluzione poteva starci...visto che per i suoi concittadini era la prova vivente della fedeltà coniugale: virtù che da quelle parti stava alla rispettabilità come l’acqua sta ai pesci? Poteva forse ricorrere alla separazione legale? Ed anche ottenendola per diritto, come l’avrebbe fatta ingoiare all’anziana madre, una signora di antico stampo...sempre pronta a pretendere da lei l’assoluto rispetto delle regole locali?
   Certo era che se fosse dipeso dalla insoddisfatta baronessa, una bella separazione legale ci stava tutta! Anche perché quella specie di società a due, stipulata cinque anni tra lei e Calogero Mannino, oltre a presentare di anno in anno bilanci del tutto negativi, per il futuro non aveva in cantiere progetti all’altezza di quella che avrebbe dovuto essere una vita all’insegna di un amore eterno, giurato e rigiurato nel periodo del fidanzamento. Era innegabile che dopo la nascita di Cesarino le occasioni di scontro, tra marito e moglie, si erano fatti meno frequenti del solito. Ma questo dipendeva solo dal fatto che i loro rapporti rasentavano, da tempo, una reciproca tolleranza fatta di rancori repressi. Era quindi del tutto comprensibile che con siffatti orizzonti, donna Mafalda si chiedesse di continuo perché continuare a tirare una corda che rischiava di rompersi da un momento all’altro.
   All’oscuro di quanto stava rimuginando l’infelice consorte, don Calogero se ne stava sotto l’ombrellone al riparo dai raggi solari, impelagato con un  cruciverba abbastanza complicato. Nei momenti di maggiore difficoltà...se costretto a fermarsi per ignoranza, si lasciava andare a dei plateali stiracchiamenti accompagnati da rumorosi sbadigli che lasciavano perplessi i vicini. Di questo però il signorotto calabrese non si va pensiero, visto che per lui l’abuso era come una specie di pizzo dovutogli da Domineddio...e come tale spendibile all’insegna di un comportamento gretto e senza riguardi per nessuno, compresa la moglie: considerata un oggetto senz’anima, senza voce in capitolo e di sua esclusiva proprietà.
   Non ricordandosi più l’antico nome dell’odierna Stalingrado, composto di sette lettere...e come città d’arte  studiata a scuola, dopo essersi arrovellato inutilmente il cervello, volse la testa  verso la moglie.
   – Cuore mio, con questo sole ti scotterai! – le urlò, facendosi sentire a distanza e dando alle prime due parole il chiaro senso della carità pelosa.
   – Finisciti le parole incrociate che fanno bene alla mente e lascia stare il cuore…organo estremamente delicato che non fa per te! – rispose lei con la stessa intensità di voce e restando immobile.
   Chi li conosceva bene sapeva che don Calogero  ritenendola donna di sua proprietà – con quell’uscita stava cercando di fare salvo il sensuale corpo della moglie e niente di più. Mentre quest’ultima, sicuramente non dello stesso avviso, rigurgitava ancora parte del veleno inghiottito nel periodo a cavallo tra la prima e la seconda gravidanza. Epoca in cui i diverbi col marito erano diventati una interminabile pratica.
   Avendo capito che non era il caso di andare oltre, don Calogero finse di non sentire. Continuando poi a non ricordarsi di Zarizin voltò pagina: cimentandosi con un cruciverba ancora più impegnativo in quanto criptato. La baronessa Mafalda, invece, rassicuratasi che il figlioletto sfornava casupole di sabbia a debita distanza dal risucchio delle onde, si rituffò nei suoi tristi pensieri dopo essersi spalmata le lunghe gambe con una crema protettiva.
   A diciotto anni lei e ventisette lui, la coppia  di cui sopra era convolata a nozze nel Millenovecentocinquantatre. Il ventisette maggio. Dopo una più che stentata laurea in avvocatura di don Calogero. Un dottorato raggiunto per la forte pressione paterna accompagnata a delle sostanziose bustarelle...piuttosto che ad un vero e proprio attaccamento agli studi del laureando.
   Il loro fu un matrimonio principesco, al quale brindò buona parte della privilegiata società calabrese. Gli abitanti di Cutro, grosso centro agricolo a poco meno di sedici chilometri da Crotone, ammirandoli sulla carrozza trainata da cavalli bianchi fatti arrivare per l’occasione da Napoli, furono unanimi nel definirli gli sposi più belli visti in tutta la Regione dopo la caduta del Fascismo.
   Per la gente che lo conosceva bene o che ne aveva sentito parlare, lui era Calogero Mannino...col “don” stampato sulla carta d’identità. Altezza: mt. 1,78. Peso: kg.75. Occhi: verde-chiaro. Professione: benestante. Segni particolari: ricco da fare schifo; tanto che all’interno dell’unica Banca del posto si vociferava che con i soldi ricevuti in eredità dal padre avrebbe potuto mantenere nella più spendacciona agiatezza, e per non meno di centocinquantamila anni, una famiglia di dieci persone.
   Per i Cutresi e per tutti i maschi del circondario era invece don Calogero e basta. Mentre per le donne che avevano avuto modo di vederlo almeno una volta...comprese quelle con mariti fedeli e tutto fare, incarnava il desiderio peccaminoso; colui per il quale almeno una volta nella vita valeva  la pena di chiudere gli occhi ed immaginarselo lì, al posto dei rispettivi compagni di alcova...intento a succhiare dai loro seni il nettare della felicità.
   La moglie, Mafalda Mariagiovanna Frangipane, non era però da meno. Discendente di una nobile famiglia del posto, erede di un patrimonio inestimabile costituito per lo più da terre adatte a tutte le coltivazioni, vantava forme assolutamente perfette. Gli occhi neri e lucidi, con degli inspiegabili riflessi violacei, ne facevano una bellezza unica. Il viso aperto da madonna greca era un aperto invito alla cordialità ed al dialogo. Solo il suo apprendimento scolastico – avendo rifiutato a piedi fermi gli studi in un collegio svizzero – risultava deficitario per il suo rango: si era infatti fermata poco prima della Maturità Classica. E quindi poteva dirsi donna di media cultura; ma supportata in compenso da un perfetto equilibrio interno grazie al quale non andava mai oltre misura. Questo prima di sposarsi e prima di doversela  vedere con quanti la volevano obbligatoriamente mamma di tanti figli, sposa irreprensibile e moglie sempre sottomessa ai voleri del marito.
   Entrambi ricchi e belli, dunque, e con una salute di ferro pronta a far da siepe anche al più innocuo dei raffreddori. Perciò avrebbero dovuto dirsi una coppia baciata dalla fortuna. O ancora meglio, una coppia con tutte le carte in regola per poter tranquillamente preventivare una di quelle storie a lieto fine: col più classico dei: “…e vissero felici e contenti!”. Ma il Padreterno a volte fa le pentole senza coperchi, permettendo al diavolo di turno di eccedere col sale e col pepe fino a rendere immangiabile la. Forse in questo caso…col dovuto rispetto che la religione di Stato comporta, si potrebbe anche insinuare che il Divino, probabilmente per un po' di mal gestita invidia, aveva fatto spuntare gramigna nell’orticello in cui era stata piantata della tenera insalatina.
   In buona sostanza successe che dopo due abbondanti anni di matrimonio, la baronessa Mafalda non era mai  rimasta incinta. Sicché i parenti dello sposo più invidiato e sospirato del luogo, con la madre a far testa di serie, ritenendosi traditi non persero occasione per colpevolizzarla. Incitandola nel contempo a darsi da fare, di più, per mettere al mondo un pargolo...come se fosse dipeso tutto da lei. Inoltre, nel dirle che dare un erede a don Calogero era un suo preciso dovere, le facevano altresì notare, con ossessiva insistenza, che un matrimonio senza figli non poteva dirsi benedetto da Dio. Finendo poi col farla diventare sinonimo di sterilità per le malelingue che ormai in tutta Cutro,  ne parlavano a punta di forchetta in ogni cantone.
   Sul fatto che la coppia s’impegnasse più del necessario, e che ogni momento venisse ritenuto buono per tentare il colpaccio, non potevano invece esserci dubbi: certi giorni infatti i coniugi Mannino facevano sesso fino a tre volte in una intera giornata! Ma per quanto cercassero l’attimo propizio restavano sempre al punto di prima...senza mai un barlume di certezza e con la rassegnazione che ormai cominciava a serpeggiare anche nelle loro menti. Prima, però, per espresso volere di donna Filomena ci fu una lunga serie di visite mediche esclusivamente a senso unico: con la giovane baronessa quasi trascinata di peso da un ginecologo all’altro: per mezza Italia.
   Quando non si venne più a capo di nulla, pensando infine ad una magarìa19, sempre su insistenza della suocera si ricorse ad una fattucchiera che metteva e toglieva il malocchio. Così, in una sinistra caverna esposta ai quattro venti sulla montagne della Piccola Sila, per la ritenuta sterile signora Mannino ebbe inizio una lunga trafila di palpeggiamenti e propiziazioni varie. Fino a quando la megera confezionò un amuleto da tenere sotto il cuscino di don Calogero...prestatosi all’esperimento per accontentare la madre. Il veneficio prevedeva anche una nauseante mistura da prendere prima di ogni congiungimento carnale, ma questo solo per la baronessa Mafalda: che finse di gradire e che non bevve mai.
   Successe invece che un bel mattino...per l’esattezza nella prima metà di agosto del Millenovecentocinquantacinque, lei si rese conto di essere gravida da circa un mese e cominciò a fare salti di gioia. Dal canto suo, gonfiandosi come un pavone e senza sottintendere più di tanto le sue capacità amatorie, don Calogero comunicò ad amici e parenti la buona novella. Il Padreterno...riferito ovviamente al discorso delle pentole e dei coperchi, per quanto riguardava la madre dello sposo fu quasi costretto a cedere dei punti alla fattucchiera: diventata nella circostanza la santa dei miracoli impossibili.
   Da quel giorno in casa Mannino il sorriso ritornò sovrano, ingentilendo gesti parole e volti. Si riorganizzarono sfarzosi ricevimenti per festeggiare la sposa: abilitata al ruolo di moglie capace. Si ridiedero cene luculliane per amici e parenti: ognuno dei quali in obbligo di augurare alla rinata coppia i più sentiti auguri per l’arrivo in casa…questa volta di un figlio maschio di sana e robusta costituzione...nonché  intelligente e bello come cotanto padre e cotanta madre!
   In queste occasioni, mentre donna Mafalda ringraziava con garbo, offrendo rosolio e pasticcini fatti in casa agli ospiti, don Calogero, con un certo piacere assumeva atteggiamenti da stallone di razza che facevano arrossire la moglie,  bisbigliando quando ne percepiva la necessità un chiaro e netto: “Avete visto che non dipendeva da me?”.
   In siffatta atmosfera cominci il periodo della gestazione e dei
progetti per il futuro rampollo. Il nome era già stato deciso da tempo: Cesare come il nonno paterno. Se fosse stata una femminuccia? No: questa ipotesi non veniva presa neanche in considerazione!
   I regali dei parenti e degli amici…tutti rigorosamente di colore azzurro, per il primo vagito di Cesarino ormai non si contavano più e nessuno arrivava a mani vuote. Ecco, tanto per esempio, una lista degli ultimi arrivi a poco meno di un mese dal lieto evento:
    • Completino in pizzo, ordinato a Firenze e fatto fare a mano come esemplare unico da donna Rosalinda: sorella di donna Erminia.
   • Culla in vimini da parte di don Saverio Frangipane: cugino gobbo della futura puerpera, che nei momenti di maggiore tensione aveva sempre confortato marito e moglie.
   • Stupenda carrozzina fatta disegnare apposta da un noto stilista, con ombrellino, freni a doppia sicurezza, portaـbiberon e portaـbomboletta di ossigeno: assoluta novità contro una possibile quanto malaugurata ipotesi di soffocamento durante la calura estiva, voluta a bella posta dalla committente Topazia Frangipane : zia della baronessa Mafalda.
   • Serie di dodici fasce ricamate a mano, in pura seta cinese: dono della futura madrina.
   • Girello “Pupobello”.
   • Box “Alzati e cammina”.
   • Dieci scarpette ed altrettante cuffiette in delicatissima lana d’angora.
   • Girello “Pupo Chic”.
   • Un centinaio di cappellini.
   • Trentadue paia di guantini.
   • Altro girello “Pupobello”.
   • Centoventotto bavaglini con diciture diverse.
   • Una montagna di ciripà…in grado di soddisfare un asilo nido.
   • Giochi didattici che avrebbero messo in seria difficoltà un adulto, da Marianna Mannino: detta “Mimì” per le sue iniziali e sorella di don Calogero.
   • Pannolini a volontà per pareggiare i ciripà.
   • Un bel pacchetto di Buoni Postali che rendevano Cesarino straricco prim’ancora di nascere.
   • Ad un comune amico letterato, recante anche lui pacchi di pannolini, mentre gustava l’anisetta che donna che donna Mafalda aveva preparato con le sue mani, non gli rimase che pronunciare un “Melius abundare quam deficere!”.
   Circondati da tanto affetto, i futuri genitori non si accorsero del tempo che filava via. Il momento fatidico era ormai alle porte: si trattava di giorni e Cesarino già spingeva come un forsennato, tagliando il respiro alla gestante…sempre pronta comunque a tranquillizzare tutti.
   – Il nascituro sta bene e prepara la sua venuta in questo mondo a colpi di grancassa, disse verso la fine a sua madre, preoccupata per lei.
   Anche don Calogero pativa l’attesa…e se di notte riusciva in un certo qual modo a dormire, di giorno non pensava ad altro. Negli ultimi giorni, quando s’infervorava gli tremavano addirittura le mani: sembrava quasi che dovesse partorire lui e non la moglie.
   I nuovi guai per la coppia cominciarono quando la giovane baronessa, il due di marzo del Millenovecentocinquantasei, di buon mattino, accusò dei dolori all’addome. Avvisata dopo circa un quarto d’ora da una vicina di casa, la mammàna20 che teneva la nobildonna  in cura e che ne controllava giorno per giorno la gravidanza, paventando una probabile eclampsia si attivò per l’immediato ricovero della gestante all’ospedale di Crotone, dove nel reparto di ginecologia, messo in preallarme telefonico avevano già preparato la sala-parto. Dopo circa un’ora, don Calogero venne raggiunto da un motociclista mandato dalla madre in una delle sue tante terre coltivate a bietole da zucchero, in località Steccato, dove gli stavano mettendo in funzione un nuovo irrigatore che portava acqua dal fiume Tacina alle piante. Messo al corrente dal centauro su quanto stava capitando, senza perdere un solo minuto in altre faccende si diresse verso l’automobile posteggiata sotto un albero, al riparo dal Sole. “Le idi di marzo…giorno tignoso per la nascita di un nuovo Cesare!”, bofonchiò mettendo in moto e dirigendosi a tutto gas alla volta del nosocomio.
   Sostenuta da un bastone di d’ebano con pomo d’argento cesellato a mano, ad aspettarlo davanti alla porta d’ingresso, c’era donna Irene: la zia del cuore...fra le tante che lo avevano coccolato fin da bambino.
   – E' la maledizione delle Idi di Marzo! – gli sussurrò la raggrinzita sorella del padre, come se avesse avuto il potere di rovistare nella mente del nipote.
   – Ma è altrettanto vero, zia, che per un Cesare tutti i giorni dovrebbero essere buoni! – rispose quest’ultimo…forse per farsi coraggio e togliersi dalla testa il triste presentimento del peggio.
   In sala d’attesa don Calogero trovò sua madre, la suocera e la donna che aveva chiamato l’ostetrica. Qui si sedette ed aspettò in silenzio. Sull’altro lato del corridoio, dietro una porta a vetro protetta da personale paramedico, qualcuno gli disse che donna Mafalda era sotto i ferri in sala parto. Per il resto bocche cucite a doppio filo su tutti i fronti...con suppliche mentali a santi e madonne per un seguito senza eccessivi patemi oltre all’iniziale paura.
   Poco prima di mezzogiorno un’infermiera usci velocemente e sparì, inghiottita dal lungo corridoio gremito di gente. Mentre la mancanza di notizie da parte medica, teneva in costante apprensione  i pochi parenti di entrambi i coniugi, gli amici più stretti sia di donna Mafalda che di don Calogero, e pure degli occasionali conoscenti  arrivati da ogni dove per dare la loro solidarietà.
    ̶   Le cose non si mettono bene!  ̶  gracchio donna Filomena asciugandosi il sudore con un fazzoletto di lino.
   – Lo penso anch’io! – piagnucolò donna Erminia, madre di donna Mafalda.
   La decrepita donna Irene non disse nulla e così fecero tutti quanti gli altri, lasciando che il silenzio ridiventasse di nuovo il solo padrone dell’ambiente. Don Calogero, invece, ignorando il divieto fumava una sigaretta dopo l’altra, ammorbando l’aria.
   Circa un’ora dopo, col camice ancora sporco di sangue il primario del reparto si portò sulla soglia della sala d’attesa e con tono solenne annunciò:
   – Il bimbo è nato morto. La signora ha perso molto sangue ma se la caverà.
   Sorvolando sulla mancanza di tatto...per non discutere sulla sua professionalità, le parole dette dal chirurgo in maniera a dir poco discutibile, provocarono nei parenti di donna Mafalda reazioni diverse. La canuta zia Rosalinda tirò fuori un rosario e si mise a pregare. Don Calogero, superato l’attimo cruciale, si dedicò ad un’acuta osservazione del soffitto: perdendosi nelle numerose crepe. Donna Erminia nascose la faccia tra le mani e pianse metà, perché pur perdendo da una parte l’atteso nipotino dall’altro le restava in vita la giovane figlia...che col tempo e la partecipazione del genero – penso – prima o poi l’avrebbe resa sicuramente nonna. Mentre donna Filomena, che sotto questo aspetto si sentiva ingiustamente defraudata, la pensava in modo del tutto diverso e scuoteva la testa in senso di diniego.
   Tra i cinque misteri dolorosi del rosario recitati da zia Rosalinda, il cocciuto isolamento di don Calogero, la dolorosa prostrazione di donna Erminia e di tutti i presenti, il solo a compiacersi dell’accaduto fu certamente il destino avverso: sempre pronto ad appannare le coppe e tramutare il vino in aceto anche quando non ce ne sarebbe stato bisogno.
   A dargli mano ci si mise persino chi avrebbe dovuto starne alla larga, cioè la madre di don Calogero. L’autoritaria donna, che a prendere per oro colato le parole di chi la conosceva più da vicino avrebbe dato fuoco al pagliaio per consolare il figlio, fu lapidaria nel dirgli:
   – Mafalda non sarà mai in grado di darti un figlio!
   – Tua madre adesso è troppo addolorata e non sa quello che dice! – s’intromise zia Irene, nel disperato tentativo di rendere innocuo il veleno sparso dalla cognata.
   – Vattene a casa…qui è compito nostro! – fu l’invito fattogli dalla suocera mentre puntava donna Filomena proprio come avrebbe fatto una mangusta con un cobra.
   Con la sigaretta penzoloni tra le labbra, Il mancato padre non diede ascolto a nessuna delle tre donne. Frastornato dalla negatività degli eventi continuò a fissare la parte del soffitto, dove ampie chiazze di muffa verdognola deturpava alcuni stucchi di pregevole fattura. Nel corso di questo suo minuzioso esame – stando all’espressione disgustata del viso – dovette trovare anche il modo di prendersela con le persone addette alla manutenzione dell’ospedale: colpevoli di tanto degrado.
   Distolto lo sguardo da quanto stava a dimostrare tutta la capacità italiana nel distruggere dei capolavori d’arte, don Calogero uscì dalla sala e con il guanto di sfida in testa...da lanciare contro chiunque avesse osato sbarrargli il passo, cominciò a camminare su e giù lungo l’antistante corridoio. Alla prima infermiera che incrociò, chiese di portarlo a vedere il corpicino senza vita del figlio, ma ne ottenne un netto rifiuto in quanto l’interpellata non disponeva della l’autorizzazione necessaria. Ne venne fuori una sfuriata all’insegna del “lei non sa chi sono io!”....con il furibondo signorotto che minacciava tuoni e fulmini contro la malcapitata.
   Accorsa per troncare la disputa, la caposala inizialmente ricalcò il concetto che senza un espresso parere del ginecologo, alla piccola salma non doveva avvicinarsi nessuno. Avendo poi recepito lo spessore economico di don Calogero, decise invece per proprio conto: ordinando alla inflessibile infermiera di soddisfare all'istante la legittima richiesta del facoltoso personaggio. Cosa che questa ultima fece – bontà del soldo! – dimostrandosi più servizievole di una sguattera al primo impiego.
   Se dopo la resa delle infermiere don Calogero avesse solo immaginato ciò che la cattiva sorte teneva ancora in serbo per lui, anziché pretendere che quella sua richiesta fosse esaudita in quanto suo sacrosanto diritto, si sarebbe piuttosto troncata la lingua con i denti. O diversamente se ne sarebbe tornato a casa, seguendo il consiglio della suocera. Così facendo forse le future liti con la moglie avrebbero assunto toni meno aspri…risparmiandosi anche qualche fastidiosissimo prurito in fronte. Ma la cronistoria dei fatti non lascia spazio alle supposizioni, quindi nel seguito viene proposta come esattamente accadde.
   Tolto il telo che copriva il corpo esamine del figlio, don Calogero bestemmiò e per poco non ebbe una vistosa perdita di equilibrio. Il cadavere del piccolo Cesare era dello stesso colore delle melanzane e presentava una vistosa gobba sulla spalla sinistra…come don Saverio Frangipane: figlio di uno zio paterno di donna Mafalda.
   Del sospetto che lo spinse a guardare ancora una volta il mostriciattolo, provocandogli un travaso di bile, meglio non farne parola. Qui ci si limita a dire che il dubbioso padre, avutane abbastanza di quel raccapricciante spettacolo, uscì dal locale. Attraversò in fretta e furia il corridoio, e con la bocca schiumante di rabbia se ne tornò nei campi senza passare dalla sala d'attesa. Sotto l’effetto rivitalizzante di una fleboclisi, donna Mafalda nel mentre era finita in una camera riservata alle persone di rango, nell'ala meno rumorosa dell’ospedale. Accudita dalla madre – che tra un’Ave Maria ed un Padre Nostro ora la esortava a chiedere perdono a dio dei suoi peccati, compresi quelli della carne – ne ebbe ancora per una settimana…e con una degenza molto sofferta perché non ricevette visite da parte dei Mannino, marito incluso!
   Anche il ritorno a casa fu pessimo! E peggio ancora fu il primo anno dopo l’aborto: con don Calogero che rifiutava ogni sorta di dialogo, e che la zittiva in malo modo ad ogni richiesta di spiegazione.
   La buona volontà messa all’inizio dalla nobildonna per salvare dall’incombente naufragio il matrimonio non approdò a nulla. I suoi ripetuti e sofferti atti di sottomissione, al contrario, servirono solo a soddisfare gli appetiti sessuali del consorte, diventati col tempo animaleschi oltre che a senso unico. Infatti la possedeva con forza…finché far sesso senza godimento per donna Mafalda diventò come fare una qualsiasi altra faccenda domestica…però con tanta voglia di vomitare tutte le volte che le mani del marito toccavano le sue parti intime. E quando era sul punto di perdere la pazienza, con uno stoicismo degno di un’eroina si ripeteva che il fondo quel Calogero Mannino non era poi marito per il quale valeva la pena di avvelenarsi il sangue; e che la nomea di “partito invidiabile”, portata come vessillo sacramentale sull’altare da quanti si erano lasciati influenzare dalle apparenze, non era mai stata tanto mal riposta: lei che ci viveva insieme lo aveva capito perfettamente. Come altrettanto perfettamente aveva capito che quell’oggetto del desiderio femminile era succube della suocera...se non addirittura plagiato dalla sessa. Convinzione, quest’ultima, che si concretizzava tutte le sante mattine, quando il marito...pur non sentendone il bisogno, si precipitava dalla madre per farsi sbattere l’ovetto fresco nel caffè.
    Prima di andate oltre, è necessario stabilire che il rito dello zabaione – preso per quello che in realtà valeva – a donna Mafalda non dava alcun pensiero. Paladina di questa piccola mania radicata nel tempo e condivisa dalle mamme di una certa agiatezza, lei sapeva benissimo che preparare con le proprie mani quell’energetica bevanda cremosa da far bere ogni mattina ai figli maschi – specialmente se ancora abbastanza freschi di matrimonio – oltre a creare una inconscia complicità di alcova, per alcune vecchie madri come donna Filomena era un po' come dire “Dacci dentro e dammi al più presto possibile un altro nipotino!”.
   A rendere furibonda la mancata mamma, era invece il minuzioso rendiconto delle ultime ventiquattro ore riguardanti i suoi affari di casa. Quelli cioè che il mamma-dipendente don Calogero – senza tralasciare la loro intimità di coppia – doveva sottoporre al vaglio della “strega in pectore”...appellativo da lei appioppato alla suocera dopo il ricorso alla fattucchiera per propiziare la  malriuscita maternità.
   Così infatti, donna Filomena, seduta sulla sua personalissima poltrona, nell’orribile salotto viola che la nuora detestava, alla pari di un consumato confessore ascoltava in silenzio il suo unico figlio! Se lo interrompeva era solo per ordinargli un comportamento piuttosto che un altro…ovviamente sempre in linea con le sue personalissime vedute e mai con quelle di dell’interrogato. Il tutto finché non passava poi all’ordinaria amministrazione, cioè ad una sfilza di parolacce contro la nuora e contro donna Erminia…che a conoscenza di alcuni dati statistici sui capricci della natura difendeva la sfortunata figlia in merito alla deforme nascita di Cesarino.
   Sempre uguali nella forma e nella sostanza, le invettive di donna Filomena contro nuora e consuocera, erano ormai diventate una di quelle solfe che don Calogero ascoltava senza battere ciglio fino all’ultima goccia di zabaione. Interromperla sarebbe stato quasi impossibile, perché in quei frangenti la madre diventava una specie di rullo compressore mai a corto di carburante.
   Quella era la realtà in cui viveva donna Mafalda da otre due anni, cioè da quando era stata dimessa dall’ospedale dopo la parentesi Cesarino! Un clima decisamente ostile. In cui viveva notti da incubo e giorni durante i quali contava i minuti alla stregua di una detenuta in attesa di giudizio per un reato mai commesso...con l’aggiunta di un marito che non dava alcuna speranza di ravvedimento. Un don Calogero che fuori casa manteneva un contegno di facciata fatto di apprensioni e cure per la bella moglie, e che fra le quattro mura domestiche era sul piede di guerra ventiquattro ore su ventiquattro. In più, le rarissime volte che in quel luogo diventato teatro di scontro sembrava volesse far capolino la pace, neanche a farlo apposta, arrivava l’inaspettata visita di don Saverio: sempre sorridente come una Pasqua.
   Ignaro dei dubbi gravanti sulla sua persona, ma non all’oscuro dell’aria che tirava in casa della coppia, il poverino durante tali visite s’inventava di tutto pur di rallegrare quei due parenti sempre sul punto di sbranarsi a vicenda. Innocente come l’ostia consacrata…e più leale di un cavaliere di re Artù, poverino si sarebbe appeso al soffitto a mo' di lampadario per vederli allegri e spensierati.
   Trattandosi però di visite già collaudate e con dei risvolti già vissuti, prevedere a quel punto gli atteggiamenti che avrebbe assunto don Calogero nei confronti dell’ospite...accettato sì ma non gradito, sarebbe stato facile per chiunque. Sospettose e puntuali, infatti, per quanto camuffate con assoluta maestria le   brucianti occhiate del padrone di casa atterravano sulla gobba dell’ingenuo cugino...magari proprio nel momento in cui stava raccontando l’ultima barzelletta sui carabinieri.
   Diverso invece era l’atteggiamento di Donna Mafalda, che sembrava divertirsi un mondo anche se con delle risate non squillanti come ai primi tempi del matrimonio, ma piuttosto stridenti. E d’altro canto non poteva essere diverso parchè con le capacità intuitive di cui disponeva, lei dava per scontato che il coniuge ad un certo punto, sperando di scoprire cadaveri mai sotterrati, avrebbe cominciato a fare le sue solite capziose domande. Le stesse che poi, dopo il commiato del cugino, avrebbero dato il via alla inevitabile lite. A quel punto le parole o restavano nei limiti della sopportazione, rimandando il tutto alla prossima litigata per dirsi il resto, o don Calogero usciva di casa sbattendo la porta mentre la moglie correva a cercare conforto tra le braccia di mamma.
   Quelle fughe improvvise, frutto dell’esasperazione di donna Mafalda, erano per la baronessa Erminia motivo di grande apprensione. Ma questo non la rendeva partigiana al punto da condannare a scatola chiusa il genero. Sentite infatti le lamentele della figlia, come tutte le sagge  madri di una volta, si affidava al buon senso: dividendo a metà tra i coniugi le ragioni e le colpe. Mentre alla cognata Rosalinda Frangipane, che nel merito le faceva carico di non difendere con la dovuta determinazione la nipote dalle maligne dicerie di donna Filomena, rispondeva che la vita coniugale dei due ragazzi non necessitava di ulteriori ingerenze esterne per accentuarne l’inaffidabilità; per questo, le diceva, c’erano già i Mannino, e quindi non si trattava di difendere con più forza Mafalda, ma semplicemente di convincerla ad essere più indulgente con un marito accecato dalla gelosia.
   Non più innamorata di don Calogero, da quando avvalendosi dei diritti maritali aveva approfittato di lei per la prima volta, la sera del diciotto ottobre del Millenovecentosessantuno, durante una di queste discussioni a caldo donna Mafalda comunicò alla madre:
   – Da circa due mesi non mi vengono le mestruazioni: sono di nuovo incinta.
   – Bene, questa è una gran bella notizia! – fu il lontano commento di zia Rosalinda, seduta in un angolo a leggere qualcosa sui festeggiamenti per il Centenario dell’Unità d’Italia, in corso a Torino.
   – Finalmente...ci voleva per riappacificherà con Calogero ed anche con sua madre: che a conti fatti non è né meglio né peggio di tante altre suocere! – le rispose donna Erminia.
   Alla notizia che la nuora era di nuovo in stato interessante, datale dal figlio in un secondo tempo, donna Filomena prima restò muta per alcuni minuti e poi aprì bocca alla sua maniera.
   – Speriamo che almeno questo nasca in grazia di Dio e non come l’altro…quello sgorbio! – disse acida.
   Don Calogero non fece commenti. Continuò a soffiare sullo zabaione troppo caldo senza alzare gli occhi dalla tazza.
   – Quello aveva la gobba proprio allo stesso punto del cugino Saverio…buttato sempre a casa tua dal mattino alla sera. Pensa che se per fortuna non fosse nato morto, tu ancora oggi saresti la barzelletta vivente di tutta Cutro e dei paesi vicini. E quel figlio del peccato ti chiamerebbe impunemente “papà”…Dio lo stramaledica ovunque esso sia: anche nell’aldilà! – consolidò dopo una mezza rifiatata e continuò, facendosi il segno della croce – Ave Maria gratia plena dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus tui Jesus.
   Ma non era finita. Dopo un altro sospiro che sembrava un rantolo riprese:
   – E la baronessa madre delle mie tappine21, tua suocera, mi fa vombicari22 quando sostiene che per un fatale scherzo della natura statisticamente provato, ogni morte di papa, da secoli, nella razza dei Frangipane arriva nu iumburutu23! Tu però non darle retta picchì  pur’iddra24, da giovane, u ssi facìa russa sa ci capitava i zumbari u fuassu25: ne sapeva qualcosa la buonanima di suo marito…che Dio l’abbia in gloria! – altro rantolo con seguito – Puru nta mpigna26 quel figlio spurio di Mafalda parìa sputatu a chìru ca sapìmu vìvu  e sanìzzu...e ccù tànt’i iùmbu: u Signùru u su pia mmò27!
   Nell’attesa di vedere il risultato finale di questa seconda gestazione, sia pure mantenendo verso la nuora una certa mutria, donna Filomena comunque diminuì di molto la tossicità delle parole. Specialmente quando, speranzosa, si trattava di pianificare faraonici progetti per l’anima innocente che sarebbe venuta al mondo…un maschio o di una femmina quella volta non ebbe alcuna importanza. Ed in merito al sesso questo valse anche per il figlio: diventato all’improvviso più gentile e meno prepotente del solito. Inizialmente infatti ci mise del suo, nel ridurre i motivi di scontro che ancora infiammavano l’animo della consorte, specialmente se i discorsi cadevano sui figli e sulle loro caratteristiche ereditarie.
   Ma quello di don Calogero fu un fuoco di paglia, che durò da Natale a santo Stefano. La pianta del dubbio sulla fedeltà di donna Mafalda, innaffiata a zabaione dalla suocera per quasi due anni, nel cuore di don Calogero aveva ormai radici più forti e più tenaci dell’edera, difficilmente sradicabili. Ed eccola quindi ancora una volta, rabida, donna Mafalda presentarsi alla madre per sottoporle come unica soluzione possibile: una immediata separazione legale..
   – La cosa non renderebbe felice tuo padre, perciò non voglio sentirti! – la redarguiva ogni volta donna Erminia...tirando in causa il fu barone Vittorio Frangipane e parlandone come se fosse stato ancora in vita.
   – Papà lo prenderebbe a calci! – rispondeva a tono la figlia, cercando di farsene una ragione.
   – Noi, figghicè27, siamo e resteremo gente ancorata alle vecchie tradizioni per sempre. E queste vogliono che le mogli restino incollati ai mariti finché morte non le separi! – tentava ancora di esorcizzarla l’anziana genitrice.
   – Per quanto mi riguarda sono retaggi da dare in pasto ai porci!
   – Sono principi fondamentali che hanno fatto di te una baronessa con incalcolabili ricchezze e con tutte le comodità possibili a portata di mano. Mentre il novanta per cento della popolazione non dispone ancora di acqua corrente in casa. Per non parlare dei servizi igienici...mancanti anche fuori!
   – Sai benissimo quanto me che questi sono le conseguenze del latifondo…un modo di vivere che non ha nulla da invidiare al feudalesimo.
   – Qui la politica non c’entra. Tu hai una gravidanza da portare avanti e la cosa va fatta all’interno di un matrimonio benedetto da Dio!
   –  Balle...e poi ancora balle!
   – Non essere sboccata, se vuoi che io stia ancora qui ad ascoltarti! E poi il figlio che adesso aspetti farà rifiorire il tuo matrimonio con Calogero...vedrai!
   – Io non me la sento più di vivere al suo fianco: mi è caduto dal cuore.
   – Mia madre diceva che i figli, per una coppia in continua lite, sono come il vento: spazzarono via le nuvole e fanno posto al sole.
   – Anche quando nascono gobbi?
   – E' la natura, Mafalda…la natura! Resta comunque il fatto che se fra te e tuo marito le cose non quadrano, ne soffro anche io.
   – Sì, ma a farne le spese è la sottoscritta!.
   – Ascolta mamma, figlia mia! Ed abbandona l’idea della separazione se non vuoi che io muoia di crepacuore.
   – Qui si sta giocando con la mia pelle ed io non posso e non voglio accettarlo!
   Conoscendone la determinazione, a tutta prima sembrava che donna Mafalda dovesse separarsi nello stesso giorno. In realtà tutto tornava come prima entro poche ore, appena il marito andava a recuperarla elencandole quelli che lui riteneva fossero i doveri di una moglie morigerata. Doveri a proposito dei quali lui sconfessava i suoi, nella notte a seguire, comportandosi come già descritto in precedenza da maschio-padrone e senza alcuna scusante...compresa quella secondo cui da giovane la carne è debole.
   Fu nel marzo del 'Sessantuno, per l’esattezza il tre del mese, durante il penultimo abbandono del tetto coniugale e dopo una violentissima lite col marito, che donna Mafalda assaporò il gusto della vendetta: trovandolo piacevole ed appagante più di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
   Quella volta lei se ne stava rintanata in casa della madre da ben tre giorni e del marito non ne aveva intravista neppure l'ombra. Un particolare questo non di poco conto perché don Calogero, codice penale alla mano, l’aveva sempre obbligata a riprendere il suo ruolo di moglie al massimo dopo alcune ore, minacciando una querela per abbandono del tetto coniugale, se inascoltato.
    Ciò premesso, quando nel corso della mattinata una tromba d’aria scaraventò per strada alcune tegole provocando vistose falle sul tetto della casa paterna, di quel prolungato ritardo alla baronessa Mafalda non gliene poteva fregar di meno. Anzi, con la madre bloccata a letto da un violento attacco di sciatica, e col danno da riparare prima che la pioggia prevista in abbondanza dai contadini del posto allagasse le soffitte, marito o non marito considerò una fortuna il doversene far carico. Ed eccola quindi quasi allegra, mentre dietro suggerimento della baronessa madre, con uno dei ragazzi di ruga28 che solitamente oziavano sotto le finestre di casa Frangipane, mandò a chiamare Nicola Vetere: un coetaneo muratore piuttosto sfacciato che ben conosceva perché in epoche remote, dietro incarico del padre, aveva già svolto in casa lavori di ordinaria manutenzione.
   Oberato fin sopra i capelli da impegni assunti in precedenza, il muratore, con lo stesso ragazzino ambasciatore, mandò a dirle che proprio per un debito di riconoscenza verso il defunto barone Vittorio, nel primo pomeriggio, appena dopo pranzo, sarebbe corso a verificare il danno causato dal vento allo storico palazzo...una costruzione storica nel vero senso della parola: avendo ospitato per una notte il primo Prefetto mandato in Calabria da Cavour, subito dopo l’unità d’Italia.
   Col cielo terso e senza una delle tante nuvole che poche ore prima avevano minacciato pioggia a catinelle, mastro Nicola con la borsa dei ferri a tracolla, spaccando il minuto si presentò all’appuntamento e bussò. Marianna – una domestica che oltre trent’anni prestava servizio in casa Frangipane, e che aveva fatto da seconda mamma alla piccola baronessa – quel giorno era assente per gravosi impegni di famiglia e fu quindi donna Mafalda che scese al piano terra ad aprì il pesante portone in ferro battuto.
   Nel vedere Nicola mezzo trafelato, lei prima lo accolse con una calorosa stretta di mano: ringraziandolo per la ineccepibile puntualità. Poi si dichiarò felice di trovarlo in ottima forma e con lo stesso aspetto giovanile di un tempo...quasi che lo scorrere degli anni non avesse avuto su di lui alcun potere d’invecchiamento. Finiti i convenevoli, lo precedette lungo lo scalone che portava al piano nobile.
   Coetaneo e compagno di giochi di donna Mafalda fino alla pubertà, ed anche suo dichiarato spasimante, salendo le scale e guardandola da dietro, Nicola ricambiò i complimenti ricevuti alla sua maniera, dicendole che da signorinella se la ricordava sì appetibile, ma che l’attuale suo fascino di donna fatta era un qualcosa che andava oltre ogni più eccitante immaginazione. Questo esattamente le disse, pentendosene subito al pensiero che le sue parole potessero risultare troppo licenziose per una signora ormai di così alto lignaggio.
   Alla baronessa Mafalda...che ne conosceva l’ardire e se lo immaginava in veste di focoso amante, avendo intuito che nelle affermazioni del muratore ci fosse quel pizzico di studiata malizia per imbarazzarla, la cosa non dispiacque affatto. Anzi,  pervasa da un piacevole quanto impercettibile godimento mentale, durato giusto il tempo per far capire a Nicola che la sfida era da considerarsi aperta e con tutte le licenze del caso, ai piedi della scala di legno che portava in soffitta, puntando tutto sulla gonna appena sotto le ginocchia, cominciò a salire per prima, dandogli in tal modo la possibilità di visionare una bella porzione delle  sue affusolate gambe. 
   Ed eccolo il famoso peperoncino accennato in un precedente paragrafo, nella minestra della coppia più bella e più osannata di Cutro! Tra le tante anticaglie ammucchiate nel sottotetto,  coperto con delle vecchie lenzuola c’era anche il lettino della piccola baronessa Mafalda...prima che s’insediasse, da adulta, nella sontuosa camera da letto in noce italiano, stile Luigi XVI, ordinata proprio per la sua maggiore età ad un antiquario torinese.
   Sdraiata a pancia in giù sulla spiaggia dello Steccato, la baronessa Mafalda stava pensando alle tegole buttate giù dal vento quel tre settembre del 'Sessantuno quando l’arrivo di donna Filomena...mai vista prima di allora in quel tratto di sabbia a ridosso tra una piantagione di eucalipti e mare, la riportò in tempo reale. Incuriosita, osservò la suocera mentre con un generico saluto mantenne le distanze da tutti i presenti, e mentre andò a sbaciucchiarsi Cesarino Secondo: intento a costruire casette di sabbia attaccate l’una all’altra con studiata maestria.
– Figghiu i gatta surici pigghia! Lo sapevo io...questo è intelligente almeno quanto il mio Calogero...e da grande farà  l’ingegnere-costruttore per la gioia di nonna e papà! – chiosò la nuova arrivata rivolta agli astanti.
   – E se non studia – disse di rimando donna Mafalda – lo farò diventare un bel forzuto muratore!
   – Non darle retta, amore di nonna, io per il tuo quarto compleanno farò intestare a tuo nome tutte le case di mia proprietà nel rione San Domenico...quant’è vero che oggi è il 23 agosto del Millenovecentosessantasei! – concluse donna Filomena, sbaciucchiandosi il nipote fino ad irretirlo.

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Il mostro

   L’acquazzone estivo che aveva costretto i numerosi passanti a ripararsi sotto i portici di Via Po, tra i tavolini del Caffè Fiorio, era ormai agli sgoccioli. I densi cumuli che lo avevano generato facendo il peggio, spinti da un venticello di origine africana si stavano spostando lentamente verso Nord, e col Sole che altrettanto lentamente si riappropriava dell’intera volta celeste c’era il ritorno alla normalità.
   Anche il Fiorio – diventato per la circostanza luogo di gran caciara – tornava ad essere quello di sempre: con i clienti più raffinati che centellinavano i miscugli alcolici del suo rinomato barman, all’interno nelle due storiche sale frequentate in tempi remoti da Cavour, e coi clienti più ciarlieri che gustavano, all’ombra delle più belle arcate del barocco piemontese, il suo ottimo gelato prodotto artigianalmente.
   Tra questi ultimi, in qualità di clienti fissi sopportati con stoica benevolenza dei proprietari, c’erano Frandomenico Villa  Nuccio Delleani e Leopoldo Orsetti di Rivoira: tre ventenni senza pesi e misure, facenti parte di un sodalizio denominato “La Cricca” per la rinomata inaffidabilità dei componenti.
   Il primo, ritenuto da tutti la controfigura della spudoratezza, insinuava senza ritegno i suoi occhi di pesce lesso tra le tornite cosce di una ragazzotta in minigonna: seduta a lui di fronte. Il secondo, detto “Fantasima” per la sua capacità di apparire all’improvviso – specialmente quando la sua presenza non era gradita – con l’immancabile sigaretta in bocca e la testa nel fumo osservava quel ben di Dio facendo finta di guardare altrove. Il terzo...ultimo rampollo di un nobile casato con risorse economiche ridotte all’osso per delle non vincenti scelte politiche fatte dai bisnonni un po' prima dell’Unità d’Italia, stravolgendo antichi racconti di cappa e spada, cercava con la fantasia rivincite per il suo decaduto blasone.
   Senza mostrare un minimo d’interesse, sparita la ragazza, Villa chiese:
   – Ma perché lo ha fatto?
   – Non lo so e non m’interessa! – fu la risposta di Leopoldo Orsetti.
   – Al suo posto io lo avrei fatto già da un pezzo. – commentò distrattamente Fantasima.
   Stavano parlando di Carlo Ferrua, un barbone impiccatosi nella notte e del quale i giornali...tralasciandone i pregi ed elencandone i difetti, davano ampia notizia in cronaca.
   L’uomo in questione era assai noto da quelle parti. In molti lo definivano “mostro” per le innumerevoli cicatrici che gli deturpavano il viso, e che a tutta prima sembravano i postumi di un virulento vaiolo. Il poveraccio, invece, durante un furioso incendio in un asilo nido, sprezzante del pericolo si era lanciato tra le fiamme per salvare un bambino rimasto intrappolato. Nel corso di questa riuscita impresa, per l’altissima temperatura i vetri di una finestra gli scoppiarono in faccia: sfigurandolo.
   I ripetuti tentativi di uno specialista della chirurgia plastica, sollecitati e pagati dal genitore del bimbo, servirono soltanto a ridurre l’ampiezza del danno facciale: l’infamia del fuoco rimase purtroppo indelebile, e da quel momento per lo sfregiato Ferrua ebbe inizio un calvario che lo accompagnò fino al suicidio.
   Deriso ed evitato dalla gente, come Quasimodo in Notre Dame de Paris di Victor Ugo, egli dovette sopportare una indicibile solitudine. Né gli valse la traboccante fiducia che riponeva negli altri ad evitargli la stessa fine...a dimostrazione del fatto che quando si naviga nei mari agitati dall’ignoranza, non basta al marinaio splendere di luce propria per garantirsi un sicuro approdo nel porto della socialità.
   Cattiverie a parte, il Mostro giganteggiò lo stesso su tutto ciò che disse e fece. Mantenendosi altruista fino in fondo e dando prova di grande civiltà. Tanto da dimostrarsi affabile anche con i propri aguzzini.
   Senza contrarre muscoli facciali, i tre amici ripresero e continuarono nel medesimo ordine:
   – E se per ammazzare qualche oretta andassimo al suo funerale?
   – Sì, andiamo a fare una sfilata di moda…così la gente ci riderà dietro!
   – Ci vestiremo da barboni.
   – Nel mio guardaroba non ci sono stracci!
   – Se è per questo neanche nel mio.
   – Io vesto abiti sartoriali…e quindi neanche a dirlo!
   Seduti al tavolino accanto, Stefano Melis ed io non fummo interpellati e non mettemmo parola. Facevamo anche noi parte di quel giro vizioso, ma per il nostro carattere alquanto pacifico e poco propenso a scherzi di pessimo gusto, a volte, quando giocavano pesante, noi due ci auto isolavamo senza dare spiegazioni. Dopo quella notizia tutt'altro che piacevole, a noi non andava di ascoltare dei commenti che avrebbero potuto accentuare ulteriormente il nostro malessere mentale. Da qui la voglia di starcene in disparte, con la ferma intenzione, almeno in quel frangente, di non sottostare a comportamenti di gruppo che venivano fatti passare come decisioni collegiali anche quando a dettarli era quel trio...ed in particolare Frandomenico: elettosi arbitrariamente nostro Capo.
   Vero è che noi due in qualche particolare circostanza avevamo eseguito alla cieca alcuni suoi ordini, ma questo andava attribuito al pessimo uso fatto fino a quel momento del nostro tempo libero: visto come qualcosa da spendere ad ogni costo…anche con gente di cui il più delle volte non condividevamo le bravate né gli intendimenti in genere. E forse fu proprio per le parole appena sentite e non condivise che ad un certo punto, dopo un generico saluto senza contorni, Stefano ed io ci dileguammo: cominciando da quel preciso istante a disertare i luoghi frequentati dalla Cricca. Una scelta, questa, dettata sicuramente dal nostro carattere schivo, ma anche dall'anima vagante di quel barbone suicida…indicato la prima volta come mostro proprio da Villa. Intanto le poche gocce di pioggia presenti ancora qua e là, lungo le strade, si erano ulteriormente rimpicciolite per la temperatura che andava salendo di minuto in minuto, e con le rondini tornate a volere alte nel cielo, sfiorando qualche rimasuglio di nuvola, il quadro estivo dell'insieme si ricompattava ulteriormente.
   Dopo un breve percorso insieme, Melis mi lasciò ed io continuai a gironzolare per le viuzze della Torino vecchia, maledicendo il gesto inconsulto di Carlo. E quando ad un certo punto me lo immaginai penzoloni dalla forca fui colto da un nodo alla gola…uno di quelli per i quali a stento si riescono a trattenere le lacrime. Ne rividi in un immaginario filmato a ritroso i patimenti terreni e per un attimo, nonostante il mio essere agnostico, sperai in un dio pronto ad accoglierlo a braccia aperte nel regno dei cieli…non fosse altro che per aver salvato un bimbo da morte sicura.
   Io ero in ogni caso il solo – in ambito Fiorio – a conoscere i trascorsi di Ferrua: raccolsi per puro caso le sue confidenze una domenica sera, alcuni mesi prima. Quella volta, suo malgrado, me lo portai a cena in un noto ristorante e lì, con la complicità di due gagliarde bottiglie di Gattinara, feci in modo che mi rendesse partecipe dei suoi segreti.
   Voglio però premettere che non era un bevitore...perché diversamente non ci sarei riuscito! Durante gli antipasti, infatti, si mantenne sulle sue, scrutandomi spesso e cercando di leggere nei miei pensieri. Si sciolse solo dopo il secondo bicchiere, all'improvviso. Quando il vino bevuto inizialmente a pancia vuota, sortì l'effetto sperato. Allora cominciò a parlare a lingua sciolta: come se volesse liberarsi di un peso che aveva sullo stomaco per fare posto al cibo...che poi mangiò con gusto, da grande intenditore.
   Dotato di un sapere incredibile e di una intelligenza di gran lunga superiore alla media…e ne era consapevole, non fece uso di falsa modestia nel riconoscere i suoi pregi, né cercò stupide scuse nel rubricare le sue manchevolezze. Fu anzi tanto schietto che da quella sera non misi mai più in dubbio nessuna delle sue future affermazioni.
   Tra un antipasto e l'altro seppi pure che da giovane aveva praticato diverse discipline sportive, finendo poi col dedicarsi interamente al salto in alto: disciplina in cui per una manciata di centimetri non partecipò ai giochi olimpici di Roma. Che si era classificato primo in un concorso pubblico con oltre duemila partecipanti, facendo suo il posto di ragioniere capo in un ente di Stato. Che aveva un figlio poco più grande di me, di nome Enea, con mansioni di un certo rilievo in un partito politico di nuova concezione, e che non vedeva da anni.
   Accertatosi della mia comprensione e della mia benevolenza, con gli occhi tuffati nella malinconia…forse per i ricordi legati a questa nuova confidenza, mi disse che si era dovuto separare dalla moglie Letizia. Una donna nata con la vocazione della prostituta perché capace di qualsiasi bassezza pur di appagare i suoi appetiti sessuali. Donna che lui aveva amato molto tanto, da perdonarla sempre e comunque. Più del fuoco, infatti, era stato il suo discutibile comportamento nei suoi confronti a determinare il crollo psicofisico di Carlo, e la conseguente perdita del prestigioso impiego.
   L'opera demolitrice della stolta consorte cominciò dopo il definitivo deturpamento del viso. Lo stesso giorno che il marito fu dimesso dall'ospedale. Quando con la scusa che soffriva troppo nel vederlo in quello stato, pretese ed ottenne che dormisse in un’altra stanza e non in camera da letto insieme a lei. In seguito lo evitò sistematicamente come un lebbroso, ridicolizzandolo spesso in presenza di amici e rinfacciandogli la mostruosità del viso: procurata secondo lei per pura vanagloria.
   "Per certi eroismi hanno inventato i Pompieri!" gli ripeteva sadicamente quando voleva zittirlo. E come se non bastasse – a dimostrazione della sua indole fedifraga – si concedeva a chiunque la volesse. Senza ritegno. Fino a portarsi gli occasionali amanti in casa. Sotto gli occhi lucidi di pianto del marito che vedeva e sopportava in silenzio…sorretto dalla speranza che alla fine si sarebbe pentita. Ma così non fu e le cose andarono di male in peggio.
   Sulla sciagurata femmina, Carlo me ne raccontò tante da farmi arrossire per lei. Stando alle sue parole, una notte Letizia fu schiaffeggiata da un suo amante e lui, volendo proteggerla, si mise in mezzo. Quel gesto, assolutamente legittimo perchè la malmenata era ancora sua moglie, e perché quella era ancora casa sua, rese l'energumeno furibondo a tal punto che con un pugno gli fratturò il setto nasale…tra le risate dell'infedele consorte.
   Pesto e sanguinante il cornificato marito pensò allora di uccidere quel violento intruso con un coltello da cucina che aveva a portata di mano, invece nella sua mente prevalse il buon senso e tutto rimase come prima. Anzi, quando i due riprovevoli amanti si trascinarono avvinghiati in camera da letto si pentì del truculento pensiero, dando a se stesso una ulteriore prova della sua mite natura.
   Dopo la sentenza di separazione legale, finita ogni speranza di riappacificazione con Letizia, Carlo andò via di casa lasciando campo libero. Da quel momento per lui ebbe inizio un periodo di vagabondaggio senza fissa dimora, durato anni. Inizialmente, chiuso in un mutismo ermetico, si disinteressò di tutto. Vagò molti giorni e molte notti senza meta e senza toccare cibo.
   Non avendo il coraggio di chiedere niente a nessuno, aveva deciso di lasciarsi morire di fame, quando un distinto signore, dallo sguardo penetrante, gli offrì una banconota di grosso taglio che gli permise di finire il lungo digiuno. E così Carlo da quel giorno cominciò ad accattonare. Con molta discrezione. Ma solo per una spartana sopravvivenza…se raccoglieva più del necessario lo dava ad altri compagni di sventura.
   Con i due filetti alla Voronoff e funghi porcini cotti in tre diversi modi, che il cameriere ci servì da secondo piatto, il nostro parlare era ormai improntato sul libero pensiero dell'uomo e sulla sua evoluzione. Nel merito, la nozionistica del mio ospite era tale da fare invidia ad un cattedratico, ed io lasciai parlare senza mai interrompendolo. In seguito, semplificandone i concetti, Carlo spaziò senza imbarazzo da Platone a Kant e da Adorno a Marcuse: demolendo o supportando certi loro punti di vista con argomentazioni da fine pensatore. Asserì di non Freud, lo definendolo non del tutto attendibile perché basava le proprie teorie sulle poche confidenze avute da un numero troppo limitato di suoi clienti e quindi non suffragati da una più sostanziosa ricerca: assolutamente necessaria – a sentir lui – quando si vuole incuneare lo sguardo tra le circonvoluzioni cerebrali di un essere intelligente come l'uomo, capace di cambiare movenze ed opinioni ad ogni chiaro di luna. A questi, infatti, preferiva Jung: più metodico e concreto nel fornire giudizi sulla psiche umana. Chiuse poi il loro capitolo affermando che, dal punto di vista medico scientifico, non vedeva alcuna differenza tra psicanalisi e psicologia in quanto non c'era metro per misurare la profondità del pensiero umano, quindi l'una valeva l'altra e viceversa.
   Il sapere e l'impegno culturale di Carlo, però, non finivano qui! A sedici anni aveva tradotto Le Vite di Cornelio Nepote, Le Troiane e Medea di Euripide, I Persiani e Prometeo incatenato di Eschilo, Antigone Elettra ed Edipo re di Sofocle, dando a queste due ultime delle chiavi di lettura così diverse dalle originali da convincere una compagnia di attori professionisti a portarle sui palcoscenici di molte città italiane. Conosceva il Diritto Romano di Gaio. Aveva letto molti capolavori della letteratura antica, in particolare gli scritti di Ovidio, di Cicerone, di Seneca, di Orazio…che amava per il suo modo di castigare i difetti della gente mettendola sul ridere. Nel moderno da Saltava con facilità da Manzoni a Boccaccia, Da Sartre a Proust. Aveva un debole per i poeti francesi…con i "maledetti" in testa. Condivideva il pensiero di Rousseau e non quello di Voltaire…giudicato troppo di destra.
   Ma la bravura di Carlo, che strabiliava chiunque, stava nel fare grandi calcoli matematici senza l'aiuto di carta e penna. Volendomene dare un saggio mi fece scrivere una cifra di sette numeri a piacimento, chiedendomi poi, da uno a nove, per quanto volevo che la moltiplicasse o la dividesse. Ovviamente io scelsi il numero più alto, e lui in pochi secondi mi diede l'esatta soluzione! Col personale del ristorante a bocca aperta…e che non riusciva a capacitarsi, l'operazione fu ripetuta diverse volte e sempre senza il minimo errore. Adesso io chiedo: se non era genialità allo stato puro, la sua, cos'altro poteva essere?
   Lasciammo il locale discutendo come due vecchi amici che avevano fatto baldoria fino a notte fonda. Eravamo entrambi piuttosto alticci. Per strada, basandosi sulle apparenze e sulla diversa età, la gente ci guardava incuriosita perché non trovava un nesso logico tra noi due: io infatti indossavo un impeccabile completo di lino beige, e lui invece dei miseri stracci.
   – Quella seconda bottiglia non ci voleva. – mi disse dopo un centinaio di metri, reggendosi al mio braccio per non perdere l'equilibrio.
   – Che vada a farsi fottere tutto. – gli risposi – Sei felice?
   – Sì! Oggi mi sento un uomo vero.
   – Allora viva noi!
   – Evviva!
   – E' bello vederti così.
   Malfermi sulle gambe, e sostenendoci a vicenda, lentamente c'incamminammo verso i Giardini Reali alla ricerca di una panchina sulla quale smaltire una parte di sbornia. Sotto il porticato del Teatro Regio, un vergognoso manifesto elettorale dell'Union Piemunteisa1, ovviamente abusivo, offendeva le mie radici. Carlo si accorse del mio risentimento e tentò di prendere le distanze.
   – Certo è che il Partito di Gremmo non fa onore all'ospitalità del Piemonte! – mi disse.
   – Però raccoglie voti!
   – Sì, ma esprime una piemontesità gretta e…
   – … e di natura razzista!
   – Proprio così. Questo furbacchione sta tentando la scalata al potere locale invocando, per la Regione che fu fautrice dell'Unità d'Italia, un'autonomia assurda.
   – Promettendo ai suoi degni elettori opulenti banchetti di natura xenofoba.
   – Roba che se Garibaldi lo sentisse si rivolterebbe nella tomba.
    – Meglio avrebbe fatto, annullando quell'incontro a Teano con Re Vittorio!
   – L'Unità del Paese ha portato vantaggi a tutti.
   – Non al Sud!
   – Ma che dici?
Da nazionalista convinto, senza mai tralasciare un forte amore
per la mia natia Calabria, io avevo sempre cercato un punto d'incontro capace di sgomberare il campo dai tanti pregiudizi razziali che non facevano onore né a chi li fomentava…come Gremmo, e neppure a chi li condivideva…come gli altri facenti parte della sua lista elettorale. A quei signori dell'Union Piemunteisa29, secondo me, andava ricordato che il conto del pessimo progetto unitario studiato proprio in Piemonte era stato pagato abbondantemente dal Meridione d'Italia, Come sostiene Francesco Saverio Nitti nella documentata ricerca storica "La Questione Meridionale30", oppure tutte quelle forzature che fecero del Sud una colonia economica delle Regioni più ricche del Nord, ricordate nelle "Memorie di quando ero italiano31" di Nicola Zitara.
   Non conoscendomi ancora a fondo e per paura che finissimo in discorsi improntati su delle stupide rivalse campanilistiche, con la sua voce un po' impastata dalla sbronza, Carlo intonò "Calabrisella": la più folcloristica canzonetta della mia terra d'origine. Poi, strattonandomi energicamente, voleva che al "trullallalleru llalleru llallà" gli facessi il coro, ma i fumi alcolici e quel nome in grassetto di Enea Ferrua sul manifesto xenofobo mi avevano messo di cattivo umore.
   Noi due quel giorno camminammo a braccetto ancora per qualche centinaio di metri: io senza pronunciare parola e lui a parlare per due…sperando invano che in me tornasse l'allegria. Infine se ne andò, lasciandomi solo. Prima di sparire nel buio, girandosi verso di me urlò con tutto il fiato che era riuscito a racimolare:
   – Sappi che non lo riconosco più neanche come figlio, e che non la penso affatto come lui!
   Da quella sera, forse per non ricordarmi la discutibile scelta politica del figlio (diventato in seguito uno dei maggiori esponenti della Lista Gremmo) sistematicamente Carlo mi evitò: tenendosi alla larga dal Fiorio e da tutti i luoghi in cui avrebbe potuto incontrarmi. Una diserzione, la sua, che mi procurava un certo dolore in quanto io nutrivo per lui una profonda stima. Perciò, un giorno decisi di chiedere sue notizie a quanti lo avevano conosciuto in tempi migliori, cominciando
dai suoi ex vicini di casa. Ma fu tutto inutile…di lui si erano perse le tracce. Seppi soltanto qualcosa in più sulla moglie.
   Della "signora" venni a sapere che, nonostante l'età, non aveva ancora perso il vizietto di ancheggiare volgarmente quando si accompagnava con dei maschi da cinque a mazzo: raccattati in piole32 d'infimo ordine. Che tutte le donne del quartiere, al suo passaggio, si facevano il segno della croce: scansandola come un'appestata. Che aveva il fegato in procinto di spappolarsi, e che certi giorni le tremavano vistosamente le mani perché era da tempo alcolizzata all'ultimo stadio.
   Assolutamente nulla seppero invece dirmi, gli interpellati, a proposito del figlio. Io avrei voluto incontrarlo, per chiedergli le ragioni di quel suo fottuto disinteresse nei confronti di un padre del quale avrebbe dovuto andar fiero, ma non mi fu possibile per le scarsissime notizie circolanti sulla sua persona. Dalla custode dello stabile, che lo aveva visto crescere, seppi solo che si era laureato il lettere e filosofia, e che al padre non aveva mai perdonato quel suo essere passivo e rassegnato di fronte a situazioni che andavano prese di petto fin dall'inizio: senza escludere la forza se necessaria.
   La portinaia mi disse pure che tutti gli abitanti della zona la pensavano come il giovane Ferrua, e che per questo avevano tolto da tempo il saluto a Carlo. Anche secondo loro, infatti, Ferrua padre avrebbe dovuto, almeno con qualche ceffone, richiamare all'ordine una moglie tanto fuori dei canoni. Il non averlo mai fatto lo declassava ad uomo debole e di poco conto…cioè da buttare in pasto ai pesci con tutte le scarpe. Vergogna da vendere su tutti i fronti, quindi, mentre il Mostro continuava a mantenersi altruista fino al midollo, facendosi anche notare per le sue invidiabili doti di civiltà.
   Depresso per l'insano gesto di Carlo, mentre camminavo tra persone che nulla sapevano e che nulla avrebbero voluto sapere delle di lui sventure, mi vennero in mente le sue garbate
tattiche di avvicinamento ai tavolini del Fiorio, dove noi della Cricca, sopportati con stoica pazienza dal personale di servizio perché considerati ormai facenti parte dell'arredo urbano, stazionavamo nel tempo libero.
   Vederlo in quelle circostanze, nei suoi panni dimessi ma puliti, era un inno alla buone maniere. Allora, nel tentativo di rimediare qualche spicciolo o per farsi pagare un caffè, cominciava a tastare la nostra disponibilità da lontano, ad una diecina di metri di distanza, quando con un gesto elegante della mano ci chiedeva il permesso di disturbare. Ebbene, a distanza di tanti anni io lo ricordo ancora e voglio evidenziarlo; perché anche se la sua presenza non aveva mai dato fastidio a nessuno di noi. Basti pensare che si avvicinava ai nostri tavoli sola a permesso accordato...ringraziandoci per la benevolenza.
   Noi eravamo in ogni caso i suoi preferiti. Anzi la sua ancora di salvezza perché, con le nostre stupidaggini, riuscivamo a farlo sorridere. Specialmente quando s’immergeva nei suoi cupi pensieri e sentiva la necessità di parlare con qualcuno.
   A noi non dava alcun fastidio perché non era invadente e sapeva proporsi con un certo stile. Conoscendo i nostri orari infatti veniva a trovarci di proposito, e solo se vedeva una sedia libera si avvicinava lentamente. Proponendosi quasi sempre più o meno così:
   – Ragazzi, mi consentite di riposare giusto qualche minuto, giusto il tempo di prendere fiato dopo una giornata da cani?
   Sembrava il figlio della carestia, tanto era magro e pallido. Aveva due occhi infossati nelle orbite da fare spavento, ma nel complesso era di gradevole compagnia e meritava tutto ciò che gli offrivamo: tranne qualche frecciatina – a volte sciocca a volte volgare – fatta partire a caso dai due buzzurri che tenevano basso il livello culturale della Cricca, e che inspiegabilmente, sottoscritto a parte, nessuno di noi tentò mai di allontanare. Frecciatine che Carlo sapeva accettare con grande disinvoltura: dimostrando tolleranza e comprensione...o rintuzzando con sottile sagacia e buttandola sempre sul ridere.
   Nella stagione calda, non più tormentato dagli acciacchi del freddo, a volte diventava addirittura un'attrazione. Certe sere, per esempio, con consumata teatralità ci recitava il monologo di Antonio sulla morte di Cesare. Altre volte ci declamava un libro intero dell'Eneide o dell'odissea: poemi che sapeva a memoria. Quando non era in vena e traboccava di malinconia, per non essere da peso, dopo una breve sosta per il caffé ripartiva verso ignoto destino.
   Per lui noi eravamo dei simpaticissimi perditempo in una società tutta da dimenticare, per questo non ci condanno mai. Volendosi spiegare meglio ci ricordava che la vita, per quel che valeva, era una parentesi del nulla che andava semplicemente goduta…come facevamo noi. Accettava le nostre offerte perché vedeva la nostra generosità come virtù d'altri tempi. Specialmente in una città come Torino, capace di emarginare l'eroe e il delinquente nella stessa maniera…a sentir lui.
   Una sera parlando del Capoluogo Piemontese, dov'era nato cinquant'anni prima, mi disse:
   – Emergere per meriti personali nella città di Pietro Micca, oggi è impossibile. La cultura a senso unico imposta dalla Fiat dopo gli interminabili scioperi dei metalmeccanici e dopo la conseguente Marcia Silenziosa dei Quarantamila33...viatico studiato ad hoc per i licenziamenti in massa, ormai impone modelli comportamentali che sanno di assuefazione al peggio. I contatti umani, già precari prima, adesso si limitano alle casuali gomitate che ognuno di noi riceve per le vie del centro, tra le calche del sabato sera. Mentre le relative scuse, non più obbligatorie ma facoltative, non servono a scusare nessuno.
   Quanto era  veritiera l’analisi del Mostro. E con quanta amarezza aveva pronunciato quelle parole per altri versi fatte mie in una precedente analisi sul decadimento cittadino! Forse fu proprio quel suo parlare schietto a far nascere tra me e lui una sottile intesa che spesso si tramutava in complotto: quando sfidavo gli amici a mettere le mani in tasca e dare di più.
   Ora è morto e pace all'anima sua! Però continuo a chiedermi: come si è potuti arrivare a tanto disinteresse nei suoi confronti? Perché un uomo di quella levatura mentale subì questi maltrattati? O forse siamo diventati tutti così pazzi da credere che un buon carattere, un'eccellente cultura, un sacrificante altruismo e non ultima la superiorità del genio, se concentrati in una sola persona diventano difetti anziché pregi? Sissignori, ripeto la parola genio perché tale era Carlo Ferrua! Ed io qui, a dispetto della società che lo ridusse a mendicare la vita alla beneficenza, ho voluto provare la sua genialità: sarà la riabilitazione postuma dovuta ad un signore…colpevole solo di avere strappato un bimbo alle fiamme!

Torino, 25 settembre 1995

                                                           ***************
     
In nome del Popolo Italiano

   Il chiasso fatto dalla carta stampata e dai notiziari televisivi intorno alla scabrosa vicenda aveva attirato molti curiosi, e quindi lo spazio riservato al "Popolo Italiano"...in nome del quale da lì a poco avrebbe avuto inizio il processo, era gremito fino all’inverosimile.
   – Meno male che piove a dirotto, altrimenti ne sarebbero arrivati chissà quanti! – si lamentò l’appuntato della carabinieri preposto al severo mantenimento dell'ordine pubblico, rivolto all’usciere che stava portando tutte le carte dibattimentali sul bancone dei giudici.
   – Escluso qualche parente e qualche amico dell'imputato, il resto è gente a caccia di emozioni forti. – fu la risposta dell’interpellato.
   – Mi sto chiedendo, visto che sono già rumorosi adesso, cosa mi toccherà fare per tenerli a bada in seguito! – disse ancora il sottufficiale dell'Arma, alquanto preoccupato.
   – Vedrai che se ne staranno buoni e zitti, se non vorranno che il Presidente faccia sgomberare l'aula in quattro e quattr'otto.! – cercò di tranquillizzarlo l'altro, salutando e tornando alle sue mansioni.
   Rimasto solo, con voce autoritaria che non ammetteva repliche, l'uomo d'ordine fece capire alle chiassose persone accalcate alla sbarra che quella era la Corte d'Assise e non un mercato rionale, e che quindi, oltre all'obbligo di mantenere un contegno in sintonia con la solennità del luogo, da quel momento dovevano abbassare i toni. Ma le sue furono parole inascoltate, parchè l'assordante cicaleccio continuò.
   Un silenzio a trattenuta di respiro si ebbe dopo alcuni istanti, quando col moschettone ai polsi, ammanettato e circondato da un nugolo di carabinieri in assetto di guerra, Marcello tamburi fece il suo ingresso nell'ampio locale. Un silenzio dovuto al fatto che per l'immaginario collettivo egli avrebbe dovuto essere un tipo losco, abbrutito dalla connivenza col delitto, e non un bel ragazzo con gentili movenze e con una faccia pulita in grado d'infondere la più completa fiducia.
   Alto e snello, e non ancora ventenne, dal canto suo l'imputato attraversò l'aula senza curarsi di nessuno; anche se tutti i suoi pensieri erano rivolti da giorni a quell’evento che lo chiamava a rispondere di un gravissimo reato, adesso, con i polsi indolenziti dai ferri troppo stretti, non vedeva l'ora di raggiungere la gabbia all'interno della quale i carabinieri lo avrebbero sollevato da quella incivile tortura. Infatti solo a conclusione del barbaro rito, imposto dal regolamento di Pubblica Sicurezza, il giovane alzò lo sguardo, concedendosi un'ampia panoramica sull'insieme.
   L'esame cominciò dalle sbarre che lo tenevano prigioniero, e che se non fossero state di colore diverso le avrebbe dette in tutto simili a quelle usate negli zoo per evitare la fuoriuscita delle bestie feroci. Poi si soffermò sulle panche degli avvocati: con ripiani stracolmi di toghe e di valigette poste in ordine sparso. Quindi passò alle altissime pareti, screpolate in più punti e con l'originario colore bianco diventato grigio per l'incuria nel tempo: perciò da ritinteggiare. Ma quello, pensò,     era un discorso che avrebbe dovuto fare arrossire i pubblici amministratori addetti al decoro di un luogo così importante. E siccome sapeva che la vergogna in quel periodo era diventata merce irreperibile in quasi tutti i comparti dello Stato, preferì chiudere l'amara considerazione con una impercettibile smorfia.
   La smorfia divenne però un ghigno facilmente visibile allorché Tamburi posò gli occhi sul punto in cui avevano appeso un Cristo in croce. Vale a dire appena sotto l'enorme dicitura "La Legge è uguale per tutti": posizione dal suo punto di vista discutibile, stando al predicato ed all'impatto visivo.
   Sulla veridicità della scritta che in ogni tribunale della Penisola occupa spazi di tutto rilievo sempre a tergo del collegio giudicante, infatti,Tamburi, in barba alla censura carceraria, aveva scritto e fatto pervenire ad un giornale compiacente una lunga lettera, pubblicata poi con dovizia di particolari. Nella missiva, oltre a dichiararsi vittima per esigenza di copione, egli aveva definito la tanto osannata equità della Legge Italiana una trovata per allocchi…finché l'applicabilità dei Codici era lasciata al libero arbitrio di giudici incapaci di arrivare alla verità: come per l’appunto gli stava capitando. Se non addirittura corruttibili: come con un ricchissimo detenuto: colpevole per sua stessa ammissione di frode ai danni dello Stato ed assolto con formula piena dopo il pagamento di una grossa cifra. Da qui al ghigno detto in precedenza per lui il passo era breve, perché a giudicare dal punto in cui era stato appeso il crocefisso, ed attenendosi al significato più stretto delle parole, sembrava quasi che il supplizio inflitto al Nazareno fosse una conseguenza logica delle sue malefatte. E su questa base non dove stupire se al detenuto in attesa di giudizio, Marcello Tamburi, venne da pensare: "Povero Cristo, dopo quasi duemila anni di camera di consiglio la Legge dei miei concittadini, anziché sul Golgota, ti crocefigge ogni giorno all'ombra di un detto che non guarda in faccia nessuno!".
   Per capire esattamente la condotta che andrà ad assumere Tamburi, man mano che il processo entrerà nel vivo, è opportuno rilevare che lui non era per niente avvezzo a farsi pestare i calli da chicchessia, e che quindi non condivideva la passività di Gesù Cristo di fronte ai suoi carnefici. Per quanto lo riguardava, invece, lui era intenzionato a dare aspra battaglia a giudici e giurati senza esclusione di colpi...pur di sbugiardare le prove su cui vertevano certe accuse mosse nei suoi confronti. Accuse che in fase istruttoria, tra l’altro, non avrebbero retto all’urto di una foglia secca: se condotte con tutti i crismi della legalità.
  Per questo e per altri mille motivi, egli si riteneva perciò in netto credito con la giustizia e con tutto quello che le ruotava attorno. Quindi era nelle sue intenzioni presentare il conto, pretendendo l’immediata scarcerazione con le dovute scuse. E nel merito era tanto determinato che se ce ne fosse stata la necessità si sarebbe messo pure ad urlare: disubbidendo al flaccido avvocato Ciliberto – suo difensore d’ufficio – che lo voleva muto e remissivo ai voleri della Corte.
   Anche sulle capacità forensi di quest’ultimo, Tamburi aveva espresso delle riserve! E va da se che, potendo, avrebbe volentieri affidato ad altri la sua difesa. Ma con quali soldi...se da oltre due anni i pochissimi spiccioli di cui aveva potuto disporre erano quelli che Laura – la sua impagabile donna – risparmiando a fatica sulla misera paga di sartina al primo impiego, gli spediva ad ogni fine mese con meticolosa puntualità? No! Pretendere di più lo riteneva disdicevole...oltre a non averlo mai pensato. Quindi si era affidato – come si suol dire in Francia «a la fortune du pot34», ovvero mettendosi nelle mani di un avvocato con la toga di cotone anziché di seta. E dunque, per il misero Tamburi, patimenti fisici e morali che aggiunti alle ristrettezze economiche lo avevano reso insofferente verso l'intera umanità. Difatti quando si girò a cercare tra la folla il volto della donna amata, sperò che dai suoi occhi fuoriuscissero fulmini e saette capaci d'incenerire all'istante la marea d'uomini che la pressavano senz'alcun riguardo contro la balaustra. Magari anche con qualche basso e non gradito palpeggiamento, pensò, roso dalla gelosia.
   Lei invece era lì, amabile come sempre, a sopportare il disagio dell’acciuga in barile senza il benché minimo accenno di protesta. Anzi, capite le occhiatacce al fulmicotone del suo uomo, cercò di tranquillizzarlo con un largo sorriso...quasi a significare che quel branco di bufali non meritava uno sconsiderato massacro solo perché, nella sua folle corsa, stava calpestando un minuscolo fiore di campo. Marcello recepì il messaggio e ne accettò l'idea. In fondo, per quanto non più incline a certe forme di tolleranza, gradiva ancora la straripante bontà di Laura.
   Le intese a distanza tra i due innamorati comunque continuarono, e le parole non dette, dipinte in rosa, presero a ritmi crescenti delle piacevoli forme visive. In certi momenti...con l'aiuto della fantasia, i loro corpi si smaterializzarono per correre l'uno incontro all'altro: fondendosi poi in un languido abbraccio.
Questo amoreggiare a distanza, capace d'intenerire gli astanti, durò fino all'arrivo della Corte, composta di un presidente, quattro giudici a latere ed un pubblico ministero: tutti rigorosamente in toga. A seguire, in abiti civili e con la fascia tricolore, i nove membri della giuria popolare: sei uomini e tre donne.
   Dopo le formalità di rito, il Presedente domandò all'imputato:
   – Tamburi Marcello, siete voi?
   – Sissignore! – rispose il detenuto.
   – Siete nato il dieci maggio del Millenovecentotrentanove a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, da Parenti Lucia e Tamburi Luigi?
   – Sissignore!
   – Siete accusato di oltraggio a pubblico ufficiale: reato commesso in viale Padova, a Milano, il ventidue marzo del Millenovecentocinquantanove. Di esservi congiunto carnalmente col detenuto Cassagna Virgilio, vostro compagno di camerata nel carcere di San Vittore, a Milano: reato commesso la notte del sei luglio dello stesso anno. Di avere ucciso per motivi di gelosia Spatola Nicola, meglio conosciuto come "Nicoletta"...anch'egli vostro compagno di camerata durante la stessa carcerazione: reato commesso la notte tra il cinque ed il sei luglio, sempre dello stesso anno. Infine, di detenzione abusiva d'arma da taglio: servita per il suddetto omicidio. Vi dichiarate colpevole o innocente?
   – Non colpevole, signor Presidente!
   – In forma concisa, raccontate alla Corte tutto ciò che avete da dire a vostra discolpa! – ordinò con un tono piuttosto benevolo il Presidente; abituato a dare del voi a tutti.
     Tamburi tirò un lungo respiro liberatorio e cominciò:
   – Il ventidue marzo del Millenovecentocinquantanove, poco prima di mezzanotte, incappai in un posto di blocco messo in atto da alcuni agenti della Celere...ovvero sia la parte più arrogante della nostra Polizia di Stato.
   – Per non appesantire ulteriormente la vostra posizione, giovanotto, nel descrivere i fatti cercate di evitare sproloqui.
   – Voglia scusarmi, signor Presidente, ma dopo tanta ingiusta galera non riesco più a trattenere i pensieri.
   – Da quanto tempo è detenuto? – volle sapere il secondo giudice a latere di destra.
   – Da quella stessa notte del posto di blocco.
   – Andate avanti! – Tuonò il Presidente, che non gradiva interruzioni durante le fasi iniziali di un processo.
   – Senza dir parola, io mi ero fermato esattamente al punto indicatomi dall'agente con paletta, quando un altro celerino, con mitra spianato pericolosamente all'altezza della mia testa, mi chiese patente e libretto di circolazione della vettura dalla quale, nel frattempo, ero sceso per ottemperare ad un suo preciso ordine. Intimidito dall'arma ed anche dai modi bruschi coi quali dava ordini, lo pregai di spostare il mitra verso un'altra direzione. Invece lui per tutta risposta mi disse di non fare il furbo...se non volevo essere portato alla Centrale di via Fatebenefratelli, per accertamenti più approfonditi. A quel punto, un po' fuori dei gangheri, gli feci notare che non aveva alcun diritto di trattarmi come un delinquente. Ma ormai, quel servitore integerrimo dello Stato, aveva assunto un piglio che andava oltre la tracotanza, e da lì in poi tutto diventò un abuso.
   – Spiegatevi meglio! – era sempre il Presidente a parlare.
   – In parole povere, l'agente abusava del suo potere anche con lo sguardo: indirizzandomi occhiate cariche di sottointese minacce. E quando nel controllarmi la patente spuntò fuori una banconota da diecimila lire superò se stesso, mettendosi ad urlare: "Questa è tentata corruzione ad un pubblico ufficiale!". Facendo così accorrere altri due agenti impegnati nella stessa operazione di controllo.
   – E poi? – sollecitò il Presidente, vedendo in Tamburi un attimo d'incertezza.
   – Poi niente, signor Presidente! Senza prestare minimamente orecchi alle mie proteste, i nuovi arrivati, due in tutto, sostennero di riflesso le assurde accuse del loro degno commilitone. Io cercai di spiegar loro che avevo l’abitudine di tenere i soldi nella patente o nella carta d’identità, e che perciò, partendo dal presupposto che non avevo commesso infrazioni al Codice della Strada, non avrei avuto assolutamente nulla da guadagnare corrompendo l'agente. Ma le mie furono proteste inutili. Finché...non reggendo più, mi venne da dire: "Voi dovete essere matti!". E così i tre compari in divisa mi ammanettarono, spintonandomi poi con violenza verso un cellulare parcheggiato a poca distanza. In capo a mezz'ora, con altri fermati, mi portarono nella loro sede operativa, dove si continuò ad ignorare ogni mio chiarimento.
   – Dar da matti a degli agenti in servizio non è affare da poco! 
   – rimarcò il Presidente, con inaspettata severità.
   Il pubblico, che ormai simpatizzava apertamente per il giovanotto alla sbarra, non condivise e cominciò a rumoreggiare. A Laura invece vennero i brividi, perchè dal Presidente non si aspettava una così aperta severità. Tamburi invece riprese a narrare, mentre il primo giudice a latere di sinistra si soffiava rumorosamente il naso.
   – Sicuro di non aver commesso nessun reato, di fronte alle sopraffazioni dei poliziotti, restai impassibile, rispondendo, per di più con toni alquanto sottomessi, a tutte le loro domande. Cominciai a preoccuparmi di nuovo solo appena capii che la macchina trita persone della giustizia si era messa in movimento e che avrei potuto farne le spese: cosa che avvenne senza particolari scrupoli da parte di chicchessia. Dopo circa due ore, infatti, pur cadendo l'accusa di tentata corruzione, varcai i cancelli di San Vittore per oltraggio a pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni.
   – Lei pronunciò altre offese all'indirizzo dei tre questurini? – domandò il secondo giudice di sinistra.
   – No! Devo però aggiungere che sotto la loro scorta arrivai al carcere sorridendo, e che i secondini ci misero del tempo a capire che non ero un fuori di testa. Il mio infatti era un riso amaro. Anzi: una forma d'isterismo dovuta alla conclusione cui ero giunto.
   – Vale a dire? – s'intromise il Pubblico Ministero.
   – Avevo finalmente la certezza che il delinquente, in quanto tale, diventa sempre più spesso merce necessaria per il funzionamento di certi apparati, e allora…
   – ...e allora cosa? Che sta cercando d’insinuare? – gracchiò il giudice a latere di sinistra.
   – Niente! Volevo semplicemente dire che il comportamento poco ortodosso dei tre celerini supportava e supporta ancora una mia vecchia teoria. Un'astrazione secondo la quale gli avvocati hanno la necessità d'incassare parcelle per vivere, i giudici devono emettere sentenze per portare a casa lo stipendio, ai secondini servono detenuti da custodire perché altrimenti non avrebbero motivo di esistere, i poliziotti vanno cercando ladri d'arrestare e così via. Tutto ciò, a mio modesto avviso, implica che quando i criminali scarseggiano se ne devono inventare di finti...e con ogni mezzo: esattamente come si farebbe per un qualsiasi prodotto di largo consumo.
   – Filosofia da quattro soldi, la vostra...che non guarda in faccia neanche i giudici di questa Corte! – incalzò il Presidente, riappropriandosi del processo.
   – Signor Presidente, io piuttosto la definirei filosofia da chi mal sopporta regole che nulla hanno a che vedere con la civiltà.
   – Di uno cioè che oltraggia facilmente i servitori dello Stato!
   – Appesantì il Pubblico Ministero.
   – Dico apertamente ciò che penso; perché sono pulito fuori e libero dentro!. Personalmente ho sempre paragonato il quotidiano vivere di ognuno di noi ad una specie di farsa avente come palcoscenico il mondo. In questo enorme inganno...regolato da moderne democrazie e sottomesso a precise leggi di mercato, ai grandi ricchi viene data la possibilità di scegliersi i ruoli che più preferiscono, mentre ai poveri come me la parte da recitare viene imposta con la forza...e non ci sono cazzi…signor Pubblico Ministero!
   – Cercate di usare termini meno scurrili, se volete che la Corte stia ancora a sentire le vostre divertenti argomentazioni sull'andazzo del mondo! E non date scandalo amoreggiando con la vostra fidanzata! – lo apostrofò il Presidente, al quale non erano sfuggiti gli sguardi pieni di amore che i due innamorati si scambiavano di frequente.
   – E' la mia presenza in quest'aula, piuttosto, che dovrebbe scandalizzare! – precisò Tamburi, seccato per la chiamata in causa di Laura.
   – Abbassando i toni e tornando al discorso interrotto, noi, dal vostro punto di vista, saremmo degli anonimi interpreti di una commedia scritta altrove, e come tali soggetti non determinanti circa l'esito finale di questo processo...o mi sbaglio?   – Dato che ne va della mia pelle, signor Presidente, mi piacerebbe poterla pensare in modo diverso. Ma non è così! Ovviamente senza offesa per nessuno.
   – E quindi, secondo voi, chi avrebbe il compito di produrre i criminali nei periodi di magra?
   – Per esempio la Celere…che in molti vorrebbero abolire! In questo comparto ci sono poliziotti capaci di fomentare movimenti di piazza per poi reprimerli e dimostrare all'opinione pubblica la loro indispensabilità. Altri, sempre della stessa genia, escono dalle caserme col preciso compito di procedere ad un determinato numero di controlli forzati durante i quali può accadere di tutto... altrimenti perché io adesso sarei qui?
   – Avete ucciso un uomo! E non raccontateci che fu un celerino ad armare la vostra mano.
   – L'omicidio del quale mi si accusa, fermo restando che la mia colpevolezza è ancora tutta da discutere, andrebbe visto come la sfortunata conseguenza di un arresto illegale.
   – Tamburi, cercate di frenare la vostra spregiudicata condotta!
   – Io vorrei solo capire perché quei tre agenti…proprio mentre cercavo di dimenticare un'altra sconvolgente esperienza con la giustizia nostrana, si accanirono tanto contro di me!
   – Leggo, sul vostro certificato penale, di una condanna per avere minacciato un testimone durante un precedente processo. A quanto pare...stando alle parole del Pubblico Ministero, avete fatto della violenza la vostra migliore alleata!
   L’affermazione del Presidente avrebbe potuto influenzare negativamente qualche giurato. Una eventualità che Tamburi cercò di evitare, precisando:
   – Quel bugiardo, basandosi su di una mia vaga somiglianza col vero colpevole, mi fece finire in carcere per rapina a mano armata.
   – Che cosa successe, di preciso?
   – Dopo otto mesi di galera, quando ormai stavo perdendo tutte le speranze di vedere proclamata la mia estraneità al fatto, in punto di morte il vero colpevole confessò. Io fui prosciolto per tutto quello che riguardava la rapina, ma non perché in un momento di collera, durante un faccia a faccia col quel figlio di un cane, avevo mostrato il pugno chiuso.
   – Diteci dell'ultima detenzione! – cambiò discorso il Presidente.
   – Il mattino dopo il fermo di polizia, giunto a San Vittore, mi sistemarono in una camerata con due ergastolani in transito per il bagno penale di Portolongone. Il primo, Leonardo Suma: condannato per l'uccisione del fratello nel corso di una lite per questione di soldi, avuti in prestato e mai restituiti. L'altro, Virgilio Cassagna: incarcerato per l'uccisione della moglie, che a suo dire lo tradiva col macellaio di famiglia. A condividere la camerata, oltre a Nicola Spatola: detenuto per atti contro la pubblica decenza, c'era anche Giovanni Finiguerra: diventato maggiorenne lo stesso giorno dell'arresto e portato in carcere perché in un campo aveva rubato dei pomodori...divorati all'istante per fame...sotto gli occhi dell'inferocito ortolano.
   Per la motivazione che aveva portato in carcere il povero ladro di pomodori, e per la totale mancanza di carità cristiana nell'animo del derubato – palesata peraltro apertamente da tutti i membri della giuria popolare – dal fondo dell'aula ci furono commenti favorevoli al ragazzo.
   – Il furto è reato e va punito secondo i dettami del Codice Penale! – precisò immediatamente il Pubblico Ministero.
   – Se questa è Legge abbasso la legge! – urlò un coraggioso tra il pubblico, mentre il Presidente, facendo orecchi da mercante per non appesantire ancora di più l'atmosfera, ordinava all'imputato di riprendere da dove aveva interrotto.
   – Al mio ingresso in camerata Virgilio Cassagna mi disse che lì dentro comandava soltanto lui, aggiungendo che Nicola Spatola…meglio noto nell’ambiente carcerario come Nicoletta, era di sua esclusiva proprietà. Dallo stesso seppi anche che Suma rappresentava la seconda carica con diritto di comando soltanto in sua assenza, e che Finiguerra aveva il compito delle pulizie in genere. In quanto nuovo aggiunto, bontà sua, a me offrì un breve periodo di tollerata convivenza: subordinata al mio stare muto e quieto di fronte a tutto. Questo per due settimane: un lasso di tempo in cui mi sembrò di vivere in uno staterello con due dittatori e due sudditi.
   – E con il qui presente imputato...sordo cieco e muto come le tre famose scimmiotte! – chiosò il Pubblico Ministero rivolto a giudici e giurati, quasi a sottolineare la naturale tendenza di Tamburi verso quella rigida omertà tipica dei malavitosi.
   Il tendenzioso assunto non piacque all'avvocato Ciliberto, che intervenne, facendo sentire con grande determinazione la sua stridula voce:
   – La pericolosità del Cassagna e del Suma, ormai condannati con sentenza definitiva al carcere a vita, in quello specifico ambiente non avrebbe permesso atteggiamenti critici da parte di chiunque. Perciò bene face il mio assistito nel badare a se stesso!
   Tamburi assentì con un cenno della testa; poi continuò:
   – Amareggiato per la perdita della libertà, per me fu un sollievo ignorare i loro discorsi e le loro movenze! Ma non bastò perché la notte del cinque aprile, a mia insaputa perchè dormivo, nel dare un nuovo assetto gerarchico all'interno della camerata, i due ergastolani mi coinvolsero: facendo del sottoscritto il terzo suddito. Una decisione, la loro, che per temenza non me la sentii di mettere in discussione il mattino seguente, quando Finiguerra me ne diede avviso. Dallo stesso seppi anche che da quel momento in poi lui avrebbe riassettato i letti, mentre a me era stata riservata ogni sorta di pulizia in cella.
   – Adesso diteci qualcosa sul defunto Spatola. – ordinò il Presidente.
   – Sì! Nicoletta divenne cortigiana a tempo pieno, con l'obbligo ben gradito…e non ne faceva mistero, di sottostare alle deviazioni sessuali del Cassagna e del Suma anche nella stessa notte: saltando da un letto all'altro.
   – Ci dica...questi congiungimenti carnali avvenivano anche di giorno? – grugnì con morboso interesse un altro giudice a latere, mostrando denti ingialliti dal fumo.
   – Soltanto di notte. Durante il giorno, solo se non visti dai superiori, i tre si scambiavano abbracci e baci da voltastomaco.
   – A chi si riferisce, quando parla di "superiori"? – Chiese un membro della giuria popolare.
   – Alle guardie carcerarie, chiamate anche se...
   – Può bastare così, Tamburi. Adesso vada avanti con i fatti senz'arricchirli di parole inutili! – esordì il giudice a latere che non aveva ancora aperto bocca, impedendogli di pronunziare la parola "secondini": da lui ritenuta offensiva nei confronti degli agenti di custodia.
   – Col quel nuovo ordinamento per me fu peggio che stare all'inferno! Ed anche per Finiguerra, credo...all’inizio ha pianto diverse  volte mentre rifaceva i letti, tranne il mio!
   – Perché tranne il vostro?
   – Non mi andava di umiliarlo e me lo facevo da me.
   – Diteci degli altri.
   – Cassagna e Suma ammazzavano il tempo giocando a carte, oppure tracannando tutto il vino che riuscivano a comprare sottobando dai detenuti astemi. Certi giorni ne bevevano tanto da raggiungevano spesso ubriacature piuttosto fastidiose. Nicola Spatola invece passava il tempo facendosi le unghie o strappandosi i peli delle gambe.
   – E voi? – cercò di sapere un anonimo dallo sguardo pudico, facente parte della giuria popolare.
   – Alla pressante voglia di ribellarmi, ogni volta che uno dei due m'impartiva ordini, si contrapponeva la paura della ritorsione, in particolare del Suma: il più tiranno nei miei confronti. Le notti, poi, con Spatola sempre pronto ad infilarsi nel letto dell'uno o dell'altro, a parte lo schifo era impossibile dormire per i triviali discorsi che precedevano i loro malcelati amplessi. Questo fino al ventinove giugno del Millenovecentocinquantanove, giorno in cui chiesi invano ad una guardia carceraria di cambiarmi camerata, oppure di fare in modo che ciò avvenisse.
   –  E poi?
   – All'interpellato che voleva sapere i motivi della richiesta, non potendo elencargli quelli veri parlai d'incompatibilità di carattere e d'impossibile dialogo con gli altri quattro. E da lui come risposta ottenni un secco no, dovuto al sovraffollamento del carcere e quindi alla totale mancanza di posti liberi...a quanto mi disse.
   – Lo avreste ottenuto raccontargli la verità!
   – Nell'ambito carcerario, signor Presidente, i delatori vengono isolati…e si può anche rischiare la pelle.
   – Spioni in pericolo di vita, patrie galere rese invivibili da detenuti che non hanno più nulla da perdere, poliziotti senz'alcun rispetto per i diritti dei cittadini nei posti di blocco. Cose che possono accadere, certo! Ma che non giustificheranno né sminuiranno mai un delitto come quello di cui oggi il qui presente imputato dovrà rispondere, eccellentissima Corte! – sostenne infervorato per eccesso il Pubblico Ministero, diventato paonazzo.
   – Io non ho assolutamente bisogno di giustificazioni perché, anche se lei non vuole prenderne atto, io non ho ammazzato nessuno! – puntualizzò con lo stesso impeto Marcello Tamburi, dedicandogli un'occhiata carica di risentimento.
   – Questo non sarà lei a stabilirlo! – rintuzzò l'altro.
    – E per mia fortuna neanche lei! Almeno questo dovrebbe saperlo...visto che nel colpevolizzare facilmente le persone, come nel mio caso, varrebbe tanto quanto prendere una vacca per le palle.
    – Giovanotto, andate avanti senza entrare in rotta di collisione col Pubblico Ministero! E senza scordarvi, possibilmente, che questo è un processo per omicidio a vostro carico e non un dibattito sulle capacità investigative di chi ha formulato l'accusa.
    – Signor Presidente, qui si cerca di farmi apparire diverso da quello che sono!
    – Qui nessuno cerca un bel niente! Perciò andate avanti secondo le logiche processuali o limiterò le vostre parole alle sole e striminzite risposte.
    Tamburi inghiottì male, ma proseguì senza aggiungere altro:
    – Al rientro in camerata trovai un'atmosfera diversa dal solito, cioè più tesa. Dal bieco modo in cui tutti mi guardarono tutti tranne Finiguerra, ebbi la sensazione che già sapessero del mio colloquio con la guardia e del suo rifiuto al trasferimento. Una percezione, la mia, azzeccata in pieno perché i due ergastolani parlarono subito di tentata fuga; da vedersi come grave offesa all'intero reame e con il colpevole che andava punito affibbiandogli subito tutto il peso della corvè: una piacevole musica per le orecchie di Finiguerra...che di punto in bianco si vedeva sollevato da tutti i suoi umilianti servizi...e che di conseguenza, in seguito, si schierò con i più forti. In quella circostanza io avrei dovuto avere forse più coraggio. Insorgere. Attirare l’attenzione del Capoposto che proprio in quell'istante passeggiava nel corridoio del terzo raggio! Ma per i motivi detti in precedenza finii con l'accettare ciò che di comune accordo, secondo me, avevano già deciso.
   Di questo, signor Presidente io mi sento colpevole! E soltanto di questo io qui adesso dovrei rispondere. Anche perché quel mio subire passivamente ogni loro decisione fece credere, ai balordi compagni di camerata, che avrebbero potuto disporre della mia persona a loro piacimento. Detto questo, signor Presidente, è proprio necessario che io vada oltre, raccontando il resto?
   Quella rivolta dal Tamburi alla Corte, nella persona del Presidente, più che una domanda sembrava una richiesta d’aiuto. Ora che il dibattimento stava entrando nella fase cruciale, infatti, per lui si trattava di mettere in piazza particolari che avrebbero messo in imbarazzo chiunque...e che fino a quel momento aveva  tenuto nascosti per non appesantire ulteriormente la sofferenza di Laura. Episodi che andavano resi pubblici per il buon esito del dibattimento, ma che non voleva perchè al solo pensiero qualcosa andava a sbattere contro il suo nervo frenico: procurandogli conati di vomito che gli impedivano di aprire bocca. Perciò, dopo essersi martoriato le dita, torcendosele fortemente quasi per sentire un diverso dolore, cercò gli occhi di Laura con la speranza di trovare in lei la forza necessaria per raccontare tutta la verità...e quindi esorcizzare una realtà che da vittima lo vedeva carnefice chiuso in una gabbia nella quale neanche per sogno si era mai immaginato di doversi trovare un giorno. Ma non era cosa semplice neanche così.
   Intenzionato a dare un certo ritmo al dibattimento, ci pensò il Presidente a farlo uscire da quella specie di coma linguistico.
   – Sappiate che ancora qui nessuno ha deciso a priori sulla vostra innocenza o sulla vostra colpevolezza! Quindi è necessario che diciate esattamente come si svolsero i fatti. Senza omissioni di sorta circa la verità: qualunque essa sia.
   L’assassino dalla faccia d'angelo, come lo aveva definito tutta quella stampa che nelle tragedie umane di norma c'inzuppa il pane, qui tirò l'ennesimo lungo sospiro. Si asciugò il sudore che, per la tensione nervosa gli colava dalla fronte, e con un pubblico letteralmente ammutolito, riprese a narrare la sua dolorosa vicenda dal punto in cui si era interrotto:
   – Più degli altri, era Virgilio Cassagna a credere che la mia disponibilità fosse totale. Ne fu tanto sicuro che un pomeriggio, senza che io ne avessi capito inizialmente il motivo, cominciò a chiamarmi "tesoro". Ogni tanto, facendo tutto da se, lanciava verso la mia persona occhiate ammiccanti che lasciavo cadere nel nulla. Ma neanche la mia indifferenza lo dissuase! Col passare dei giorni questo suo interesse nei miei confronti fece ingelosire Spatola; che fatalmente finì col vedere in me un suo possibile rivale in amore.
   – Ci fu, da parte vostra, qualche gesto, sia pure involontario, che potesse alimentare questo sospetto?
   – Da escludere sotto ogni punto di vista: io sono per come natura detta!
   – Perciò, quello di Spatola era soltanto timore campato in aria?
   – Evidentemente.
   – Rispondete solo sì o no!
   – Sì!
   – Abbiamo qui una vostra dichiarazione, resa al Giudice Istruttore dopo l’omicidio. Leggo parola per parola: "Una sera, dopo che Cassagna scacciò dal suo letto Spatola, quest'ultimo, con un coltello tenuto abilmente nascosto alle guardie che ogni settimana perquisivano minuziosamente le celle, passò a delle pesanti minacce nei confronti del sottoscritto...facendoselo roteare intorno al collo. Resomi conto del pericolo che avrei potuto correre, da quel momento in poi, per non alimentare ancora di più la sua gelosia, presi addirittura l'abitudine di levarmi i pantaloni sotto le coperte: impedendo così a Cassagna di posare gli occhi sulle mie nudità. Inoltre, alquanto disturbato dagli sguardi svenevoli e volgari di quest'ultimo, con toni che non ammettevano fraintendimenti, in più di una occasione gli dissi di non crearsi fantasie sul mio conto. Invece lui proseguì imperterrito,con quella sua schifosissima condotta: sostenendo spesso, davanti a tutti, che il tempo giocava in suo favore." Quindi non lo assecondaste?
   – Esatto!
   – Andate avanti.
   – Il mattino del quattro luglio stavo lavandomi i denti, chinato sul bacile, quando a sorpresa Cassagna mi piombò alle spalle. Determinato e lesto egli mi attanagliò dai fianchi e strinse forte, tanto da levarmi il fiato. Poi quel maiale mi attirò a se strofinando la sua volgare erezione contro i miei glutei, mentre nel momento della foga andava biascicando frasi oscene con reiterate sollecitazioni affinché mi decidessi a diventare il suo passatempo sessuale. Colto alla sprovvista, io non potei far nulla per sfuggire all'aggressione. Così, tra il divertimento del Finiguerra e le isteriche risate di Spatola, non mi restò che subire quella bruciante stretta…finché il porco non raggiunse l'orgasmo.
   – Non ci fu penetrazione, dunque? – volle sapere un altro membro della giuria popolare.
   – No. Indossavo il pantalone e quel lurido verme non riuscì a togliermelo.
   – Questo processo andava fatto a porte chiuse. – bisbigliò il primo giudice a latere…sicuramente in urto con la conduzione del processo, rivolto ad un vicino membro della giuria popolare.
   – Tamburi, raccontate a questo pubblico…da me ritenuto abbastanza maturo da non scandalizzarsi più di tanto, il seguito di questa scabrosa vicenda! – troncò secco, il Presidente, che aveva sentito e non era della stessa opinione.
   – A cose fatte Cassagna credette di potersi tranquillamente ritirare e mollò la presa, senza curarsi di una mia qualsivoglia reazione. Invece si sbagliò perché, appena me ne diede l'opportunità, d'istinto, gli sferrai un poderoso pugno in piena faccia: fracassandogli il setto nasale. Da qui ebbe inizio la tragedia. Col viso ridotto una maschera di sangue e col gonfiore che aumentava a vista d'occhio, egli si in infermeria per le cure del caso. A quanti lo interrogarono, riferì di essersi ferito accidentalmente andando a sbattere contro un muro: versione che non convinse né il brigadiere che formalizzò il verbale dell'accaduto, né il medico curante che informò la Direzione del carcere. Comunque fu curato presto e bene. Perché lo rividi nel pomeriggio dello stesso giorno, al mio rientro in camerata, dopo le canoniche due ore d'aria che i detenuti consumano passeggiando all'aria aperta nel cortile del raggio.
   – Vi disse qualcosa?
   – No! Era lì, con una vistosa impalcatura di metallo a protezione del naso. Se ne stava sdraiato sulla branda a fissare il soffitto e dal come lo faceva, digrignando spesso i denti, mi ci volle assai poco per capire che stava meditando di farmela pagare. Una vendetta probabilmente immaginata, a giudicare dalle smorfie del viso...una vendetta della quale sembrava addirittura stesse pregustando gli sviluppi. Tra me e lui, però, non ci furono parole per tutto il prosieguo della giornata. Così come non ci fu alcun dialogo tra me e gli altri compagni di camerata. Questi ultimi fecero addirittura peggio, dopo cena, quando andarono a fare capannello intorno al Cassagna: accentuando una scelta di campo che contribuì ad accrescere la mia ansia.
   – Andate avanti.
   – In buona sostanza i quattro compari confabularono a lungo, e le sfuggenti occhiate lanciate di continuo verso l'angolo in cui io ero rincantucciato...fingendo di leggere un libro, stavano a significare che il tema dominante di quel sodalizio verteva tutto sulla linea punitiva da mettere in atto contro la mia persona. Quel continuo discutere a mezze parole, ricco di segnali a me incomprensibili, non mi permise di capire come e quando avrebbero agito, ma non per questo mi feci monaco.
   – Spiegatevi con termini appropriati!
   – Certo! Il giorno seguente, nel cortile, sicuro di dovermi alla fine difendere, affilai il mio cucchiaio d’alluminio dalla parte del manico: ricavandone all'insaputa delle sentinelle e dei sorveglianti una rudimentale arma da taglio. Così la stessa sera, all'ennesima occhiataccia di Cassagna, impugnai quella specie di coltello e con la paura che me ne diede il coraggio lo girai e rigirai tra le mani: facendogli capire che non avrei esitato un solo istante a farne uso, qualora avesse attentato alla mia salute.
   – Un modo come un altro per adeguarvi alla legge del più forte. E di sicuro non un inno alla concordia!
   – Nient’affatto signor Presidente...essendo io un uomo che ama la pace e che ha sempre fatto  del ragionamento la sua arma di persuasione!
   – Che studi avete conseguito?
   – Ho frequentato scuole ad indirizzo religioso in un collegio di preti, ricavandone una cultura in lettere e filosofia ritenuta, da molti, superiore a quella paritetica delle Università dello Stato.
   – E di cui qui, noi ne stiamo assaporando i frutti! – fu la velenosa intromissione del Pubblico Ministero...che non demordeva dal piazzare le sue bordate.
   – Ma era poi così difficile ottenere un cambio di cella per sfuggire a persone tanto pericolose?
   Ad infrangere la consuetudine che voleva i giudici popolari sempre muti e pendenti dalle labbra dei giudici togati, con la suddetta domanda ad indirizzo anonimo ci pensò un'elegante signora…non convinta in pieno circa i motivi addotti dalla guardia carceraria nel rifiutare all'imputato una diversa camerata. Era, costei, una di quelle donne contro le quali l'ossidazione del tempo si era dimostrata incapace di appannarne lo smalto e quindi ancora ruspante, pur avendo superato abbondantemente la quarantina. Vestiva un elegante tailleur di tricot color prugna: un capo di alta sartoria che lei  impreziosiva riempiendolo di piacevoli rotondità e di raffinate movenze. I suoi gioielli, pochi ma di pregiata fattura, suggerivano trattarsi di persona altolocata…abituata a fare acquisti esclusivi. Una distinta e piacevole signora con tanto di puzza al naso, però! Che trovandosi lì, in quelle vesti, non per canonico sorteggio ma per una magica trovata della Procura Milanese...dove contava molti amici, e da inviata speciale della borghesia quale si sentiva d’essere, voleva saperne di più non per esprimere un equo giudizio su Tamburi in fase di sentenza, ma per discuterne poi con le sue amiche nell'ora del the: essendo il salotto della ricca sciura35 il più frequentato della Milano bene. In quella circostanza, stando ai sussurri che ne facevano una libertina impenitente, al sicuro di smentite avrebbe potuto tranquillamente dire dell'imputato "E’ solo buono per un piovoso pomeriggio, dopo gli acquisti in via Montenapoleone!"...che era poi quello che pensava veramente.
   Ritenendo di avere già risposto con bastevole chiarezza alla domanda della donna snob, Tamburi riprese da dove si era interrotto:
   – Verso mezzanotte, approfittando del fatto che io stessi dormendo, Cassagna e gli altri presero d'assalto la mia branda. In genere i miei risvegli sono lenti, e mi ci vuole qualche secondo in per smaltire i torpori del sonno. Quella volta invece il mio azionare il cervello fu cosa unica con l’apertura degli occhi...e col terrore che da essi trapelava sentendomi immobilizzato. Posso affermare che la paura fu tanta, e che cominciai a tremare come una foglia. Piansi, pure, mentre Spatola con una mano mi teneva fermo per i capelli e con l'altra mi puntava un coltello alla gola. Ricordo che in prima istanza dissi loro di lasciarmi in pace e di non farmi del male, ma nel cuore di quei quattro bastardi non c'era per le mie suppliche. Il risultato fu che mi girarono a pancia in giù, mi tennero fermo a gambe divaricate….sodomizzandomi a turno.
   Su quest'ultima affermazione il detenuto si perse e d'impeto lasciò partire un pugno contro le sbarre, ferendosi a sangue. Fortemente turbata dal racconto e vedendolo in quelle disperate condizioni, Laura fu colta da un silenzioso pianto. Il pubblico che ormai l'aveva adottata e non la pressava più contro la balaustra, ne condivise il dolore e cercò di consolarla con benevoli sorrisi a fior di labbra. Sbalorditi rimasero i facenti parte della giuria popolare...al contrario dei giudici di mestiere: che per questioni di callo rimasero impassibili. Il tutto mentre due dei sette carabinieri messi a guardia dell'imputato, si precipitarono nella gabbia per evitare che si ferisse ancora, e per valutare l'entità del danno alla mano.
   – Ha bisogno di cure mediche? – chiese il Presidente ai militari dell’Arma.
   – Sembrerebbe di no, signor Presidente! – rispose il più anziani dei due.
   – Voi, Tamburi, cosa dite?
   – Rivisitare alcuni fatti è stato peggio, signor Presidente.
   – Anche sentirvi non è stato piacevole, statene certo! Solo che noi...senza tener conto di costi economici o morali, dobbiamo emettere verdetti senza pre-convincimenti di colpevolezza. Da qui la ricerca della verità nelle risposte che gli imputati danno a delle nostre specifiche domande.
   – Per i non colpevoli queste verità andrebbero cercate a monte: prima di farli marcire in galera e prima di rinchiuderli in siffatte gabbie…come col sottoscritto qui presente. E siccome, signor Presidente, nel mio caso le recriminazioni non servono più, per gli amanti della verità e per quanti non hanno avuto dubbi nel mettermi alla sbarra, aggiungo che finita l'orgia io corsi al bugliolo a vomitare l'anima. Poi inzuppai d'acqua l'asciugamano e cominciai a strofinare tutte quelle parti del corpo sottoposte ai loro volgari palpeggiamenti: le grattai così a lungo da farle sanguinare come il didietro…sanguinante già dalla prima penetrazione portata a termine da Cassagna. Aggiungo che in quel momento, se solo avessi potuto, quei quattro miei compagni di camerata li avrei ammazzati volentieri.
   – La rabbia vi fa straparlare.
   – Nei confronti di quei porci, signor Presidente, posso avere solo disprezzo e voglia di vendetta. La mia rabbia, semmai, rimane per quei giornalisti della carta stampata, che per vendere qualche copia di giornale in più...specialmente dopo la morte di Spatola, sguazzarono nella merda senza sentirne il lezzo. Per il pessimo utilizzo che hanno fatto delle loro penne...appioppandomi devianze sessuali del tutto presunte, ai più accaniti vorrei invece dire di cambiare mestiere per non offendere l'intera categoria. Ed anche di non affibbiare ad altri le loro pessime abitudini in fatto di sesso!
   – Adesso state esagerando.
   – Signor Presidente, io non riesco più a tollerare la condotta dell'imputato. Quindi chiedo per il Tamburi nuovo rinvio a giudizio per comportamento offensivo nei confronti della Corte! – esternò paonazzo in volto il Pubblico Ministero, senza guardare in volto il giovanotto alla sbarra.
   – Invece io, signor Presidente, con tutto rispetto mi chiedo se questo signore se l'è mai preso nel culo senz'averne alcuna voglia! – reagì Tamburi.
   – Ben detto, Marcello! – gridò uno del pubblico.
   – Quello lì è prevenuto nei confronti del ragazzo! – gridò un altro, indicando con l'indice destro il Pubblico Accusatore.
   – Silenzio! – tuonò il Presidente.
   – Non colpevole! – si sentì ancora, tra pubblico.
   L’energico e prolungato scampanellio del Presidente, nel tentativo di riportare l'ordine in aula, fu del tutto inutile. Sembrava anzi che infervorasse maggiormente gli animi dei più agitati. Tanto è che alla fine, l'alto magistrato, si vide costretto a sospendere il processo. Rinviandolo al primo pomeriggio.
   Uscita la Corte, Marcello Tamburi fu nuovamente ammanettato e messo a stazionare in una camera di sicurezza nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, dove grazie alle capacità corruttive dell'avvocato Ciliberto gli concessero quindici minuti di colloquio con Laura.
   Il breve incontro tra i due innamorati: unico contatto corporeo dopo una carcerazione preventiva durata quasi due anni, spezzava il cuore per l'intensità affettiva. I loro corpi, tesi come corde di violino e caldi più del fuoco, si fusero in un tenero ed appassionato bacio. Nei loro sguardi, oltre alla disperazione, c'era una incontenibile voglia di andare oltre; e lo avrebbero fatto senza la stridente figura del piantone, che per quanto discreto aveva l'obbligo di controllarli a distanza. L'incomodo però era lì e ne presero atto i due innamorati, passando alle parole.
   – Come stai, amore? – ruppe il silenzio, lei.
   – Come un pastore tedesco di purissima razza, catturato dall'accalappia cani e portato al macello perchè senza museruola.
   – La mano?
   – Non è niente.
   – Ti vedo molto sciupato.
   – E col sedere rotto.
   – Non è dipeso dalla tua volontà e non deve crearti problemi d'ordine mentale! Supereremo insieme tutto quello che ci sta capitando.
   – Sono incazzato da morire…e vorrei gridarlo al mondo!
   – Non ti preoccupare! Questa sera o al massimo domani tu sarai di nuovo libero, e noi saremo più felici di prima.
   – E se dovessero condannarmi?
   – Non succederà. Me lo ha garantito l'avvocato.
   – Quello è bravo solo a promettere. Qui l'unica certezza è che io sono innocente...perchè Nicola Spatola morì la notte dopo, per pura fatalità. Quando insieme tentarono di violentarmi ancora ed io lo spinsi…provocandone la caduta sul suo stesso coltello. Fu così che rimase stecchito all'istante, quel bastardo.
   – Lo so benissimo che non sei colpevole.
   – Ai fini ultimi della sentenza, le tue convinzioni non contano.
   – Anche il pubblico la pensa come me.
   – E che importa? In questo processo, sia pure con la presenza di una giuria popolare, sarà sempre il Presidente a tirare le fila!
   – Lui ti farà assolvere.
   – Fino a qualche ora fa ero del tuo stesso avviso. Quell'uomo purtroppo cambia umore più del tempo a marzo, e quindi preferisco non illudermi. Probabilmente, riferendomi al suo continuo cambiar di vela, il mio futuro dipenderà da come la moglie lo ha fatto scopare la notte scorsa…visto che ancora potrebbe farcela. – tentò di riderci sopra Marcello.
   – Allora non c'è da preoccuparsi perché gli è andata di lusso.
   – disse lei a fatica.
   – In che senso?
   – Nel senso che il mondo fa schifo…e che per amore si può fare di tutto!
   – So benissimo che il mondo fa schifo. Vorrei però capire il resto!
   Laura non resse come avrebbe voluto e chinò il capo: sentendosi per la prima volta imbarazzata di fronte all'uomo che amava oltre i limiti della follia. A voler essere più espliciti, il suo era uno stato comatoso dietro il quale c'era una storia da raccontare. Una storia figlia del suo folle amore per quel ragazzo dagli occhi verdi. Una storia che sentiva di dover raccontare al suo Marcello, e che non sapeva da dove cominciare per liberarsene.
    Il tutto nasceva da una personalissima quanto illegale indagine, svolta dal Presidente appena ebbe in affidamento il processo a carico di Macello. Costui, in forte contrasto con la tesi accusatoria di un collega che vedeva nella gelosia di un pederasta la causa scatenante il delitto Spatola, come seppe dalla censura del carcere che il ritenuto colpevole manteneva stretti rapporti epistolare con un'amante femmina, nel tentativo di smantellare le vecchie accuse per formularne delle nuove, con la complicità dell’avvocato Ciliberto chiese ed ottenne un abboccamento con la donna destinataria delle focose missive.
   Senza testimoni, il colloquio ebbe luogo nel fumoso ufficio messo a disposizione dallo stesso avvocato. Qui, dopo lo stupore iniziale per la qualità delle domande, Laura difese a spada tratta la normale sessualità di Marcello: raccontando alcuni particolari che mai avrebbe portato a conoscenza di estranei. La posta in palio però era troppo alta per tirarsi indietro, e lei andò a ruota libera; senza porre limiti alle parole.
   Col senno del poi – considerando il seguito – qui ora si potrebbe insinuare che a scatenare gli ormoni sessuali del Presidente, fino a renderlo un patetico dongiovanni, non fu tanto l'indubbia bellezza di Laura quanto la sfacciataggine della stessa nell'esplicitare certi segreti d'alcova. Di certo si sa che tra una galanteria e l'altra, il magistrato si lasciò scappare che a volte la Giustizia anziché pretenderla come un diritto conviene mediarla: patteggiando sottobanco con chi la somministra. 
  Una mistificazione favorita dalle circostanze, quindi. Dopo di che – con Laura alla vigilia del processo che chiede consiglio all’avvocato Ciliberto...e con il medesimo che di punto in bianco si manifesta ruffiano: accompagnando la giovane donna quasi di peso sulla porta dell’alberghetto periferico dove ad attenderla c'era il bavoso rappresentante della Legge – il resto andrebbe collocato nell'enciclopedia delle umane bassezze.
   Con le lacrime agli occhi Laura stava cercando parole per rendere più accettabile l'accaduto. Marcello, invece, non gliene diede il tempo.
   – Allora, vuoi dirmi cosa c'è sotto? – le urlò spazientito.
   – A sentire l’avvocato avresti rischiato l'ergastolo! – partì da lontano, lei.
   – Perché...adesso non lo rischio più?
   – No! Perché ho comprato la tua assoluzione pagando in natura! – rispose tutto d'un fiato la ragazza, stufa di cercare parole che non avrebbero modificato di un pelo la realtà.
   Per Tamburi, che in quanto a gelosia avrebbe surclassato l'Otello di Shakespeare, ci fu solo buio pesto con totale paralisi della lingua. Le argomentazioni e le lacrime di Laura, per indurlo a dire qualsiasi cosa, non valsero a nulla. Ferito nella sua quintessenza di maschio, il giovane restò di pietra. E col mondo che gli crollava nuovamente addosso continuò a fissare il pasto di mezzogiorno: un vomitevole panino con la peggiore mortadella possibile; poggiato senza tener conto delle più elementari norme igieniche sull'unico sgabello che arredava la segreta.
   Il detenuto in attesa di giudizio, Marcello Tamburi, non cambiò piglio neanche quando il piantone disse alla coppia che il tempo a loro disposizione era scaduto. Né rispose al saluto della sua donna, che uscì quasi da indesiderata ospite, urlandogli disperata:
   – Ho fatto male? Beh, sappi che non sono pentita e che mi sento violentata almeno quanto te! Aggiungo solo che da noi quando mettono in vendita la giustizia conviene sempre comprarla…se non vuoi rischiare...e se vuoi che diventi un tuo diritto!
   Nel pomeriggio, un po' per l'imputato che non rispondeva più alle domande, un po' per la non prevista assenza dei testimoni da interrogare, il Presidente aggiornò il dibattimento per giorno successivo. Alla scorta armata venne impartito l'ordine di ricondurre in carcere un detenuto particolarmente remissivo e con lo sguardo perso nel vuoto. Il pubblico, insoddisfatto, a quel punto si dileguò. Ed anche Laura, dopo avere appreso dall'avvocato Ciliberto che il Presidente l'avrebbe volentieri rivista in tarda serata, nello stesso alberghetto, s'incamminò sotto la pioggia scrosciante; senz'aprire l’ombrello.
   La più semplice conclusione, ricorrendo a quanto si seppe nell'immediato, a questo punto non può essere che la seguente: Laura quella sera non andò all'appuntamento perché la radio, pochi minuti prima dell'ora stabilita, diffuse la notizia in cui si comunicava che un certo Marcello Tamburi, detenuto in attesa di giudizio per omicidio volontario, si era impiccato nel carcere di San Vittore a Milano.
   Era il diciannove marzo del millenovecentosessantadue. Dopo quest’ennesima sconfitta della Giustizia nessuno volle sapere la verità sulla morte di Nicola Spatola, alias “Nicoletta”…neppure il Popolo Italiano.

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La sosta

   Dopo quasi un anno di metallici silenzi in cui è prevalsa la ragione degli sciocchi, cari amici, eccomi di nuovo a voi con qualcosa che per adesso definisco "racconto"...e del quale mi assumo fin d’ora ogni eventuale carico morale. Io so bene che attenendomi al significato più stretto del termine la definizione non calza a pennello. E so pure che in questo caso mi converrebbe parlare di rovinose impressioni raccolte in giro: andando per sorrisi in una città cresciuta a dismisura e senza un piano regolatore che tenesse conto delle esigenze umane. Ma l'idea del racconto mi piace e ne prendo licenza.
   Circa il vostro giudizio, sarei invece pronto a mettere la mano nel fuoco che lo chiamerete "veleno": come tutto ciò che fuoriesce dalla mia stilografica le volte in cui si cimenta in temi riguardanti il sociale . Beh, se così fosse, preparatevi a sentirne  il gusto l’amaro : è tutto vostro!
   A scanso di equivoci, io qui vorrei anche precisare che per questa fatica epistolare non cerco i vostri applausi. Conoscendovi, e ben sapendo che in qualche misura potrebbero toccarvi, io do già per scontato che farete di tutto per rispedire al mittente le critiche in essa racchiuse. Potreste addirittura farne lettera morta, dicendo: "E’ una delle sue solite sonate allarmistiche, strimpellate alla bella e meglio per fare del chiasso!". Orbene, neanche questo io credo sia il più appropriato nome da dare a quanto sto per scrivervi. Ma se di sonata proprio vorrete parlare, io spero che in essa  voi troviate una tale gravità di note da non consentirvi più per il futuro sonni  tranquilli.
   Nelle animate e divergenti discussioni avute in passato, se la memoria non m’inganna, ad ogni mio accenno ai mali che affliggono i grandi agglomerati urbani, voi mi accusaste di dare caccia alle streghe. A sentirvi sembrava che una distorta visione del mondo, mi rendesse spirito critico privo della benché obiettività. Ragion per cui a vostro avviso io ero destinato a rimanere scrittore di mezza tacca, colpevole di sciupare carta e penne.
   Detto così, tra noi, l’idea di non assurgere agli onori della cronaca letteraria non mi creava patemi allora, quando credevo che l’umanità senza le mie poesie e senza le mie riflessioni dovesse sprofondare agli inferi, e mi lascia del tutto indifferente adesso; dopo la scoperta dei cosiddetti intellettuali di regime...sempre pronti a stroncare scomodi neofiti e contro i quali io oggi negherei persino la rotondità della Terra. Mi restava però da verificare la pesantezza delle vostre accuse, perchè non mi calzava il ruolo di chi brancola nel buio per voluta cecità là dove potentissimi fari splendono per la gioia degli occhi.  Avreste anche potuto avere ragione, mi dissi un giorno, e quindi per fugare in modo definitivo certi fantasmi decisi di passare ad una disamina più approfondita delle mie convinzioni. Cosa fatta con meticoloso impegno.
   Ora, mentre scrivo, sostenuto da inoppugnabili certezze posso finalmente asserire che su di me avevate torto marcio. Se così non fosse stato…e vi prego di credetemi sulla parola, il poco senno che ancora mi resta avrebbe già zittito da un pezzo la mia penna! Invece no, io devo ancora ad essa la mania di comporre assoli per sordi; nella speranza che torni l’udito alla platea, dove vi ho riservato un posto d’onore in prima fila.
   Dopo molti mesi, ieri ho rivisto il nostro comune amico Giorgio Villa, ancora più grasso di prima. Da lui ho saputo del nomignolo "gatto selvaggio": ultima bizzarria vostra nei confronti della mia persona da che non frequento più il Caffé Fiorio, punto fisso dei nostri incontri; quando ci si trovava tutte le sere a fare flanella. Da Giorgio ho anche saputo che il vostro divertimento preferito resta quello di elencare tutti i miei difetti, ricamandoci sopra col tombolo.
   Beh, sul vostro lavorio a lume di lucerna nel cercare nomignoli per amici e conoscenti, almeno per quanto mi riguarda, non ho da fare lamentele perchè poteva anche andarmi peggio! Continua però a stupirmi l’accanimento col quale andate cercando le manchevolezze altrui, tralasciando sistematicamente quelle vostre. E qui, distrattissimi amici, se solo volessi, potrei darvi un saggio del mio essere obiettivo. Invece io preferisco non infierire! Diversamente in quale altro posto potrei collocarmi, se non nella stessa platea dalla quale tutto è visto e sentito secondo stereotipi da supermercato? Fingerò quindi di non aver capito. Anche perchè da ora in poi sarete la mia cassa di risonanza, in altre parole quelli ai quali indirizzare le mie lamentele…che vi piaccia oppure no!
   State all’occhio però nel ridiscutere e nel fare ad ogni costo i difensori d’ufficio circa le accuse che ho in animo di muovere ad una società corrotta come la nostra. Perchè se da un lato sono ancora propenso ad ascoltare qualche vostro sproloquio, dall’altro non perdonerò più propugnacoli unidirezionali. Questo per comunicare a voi tutti che o mi farete pervenire argomentazioni valide...tali che io possa assolvere Torino nel mio prossimo racconto, oppure ne farò un enorme fondale nero sul quale proietterò molti dei miei futuri personaggi. Se invece è l’ipocrisia a fare di voi i miei più coriacei oppositori, il mio consiglio è il seguente: suicidatevi in massa…da parte mia non verserò una sola lacrima sulle vostre misere spoglie.
   Riferito a produzioni letterarie, da quando ci siamo persi di vista non ho concluso nulla che valga una parola di plauso. Qualche pensiero degno di nota, ammesso che ci sia, sarebbe da cercare in queste pagine a voi dedicate. Per il resto si è sempre trattato di lavori abbozzati di sera e strappati il mattino perchè privi di mordente. E non potevo sperare in chissà quali meraviglie, preso com’ero a darmi un senso critico a prova di bomba; o quantomeno che mi mettesse al riparo dalle vostre maligne frecciate! Per mia fortuna, come ho accennato pocanzi, almeno in questo ci sono riuscito alla grande e quindi mi consolo al pensiero di non aver sciupato altro tempo. Con un pizzico di nostalgia per la spensieratezza perduta, aggiungo che in questo faticoso lavoro di ricerca mi è toccato conoscere un personaggio ingombrante, e del quale non avrei neanche immaginato l’esistenza. Un essere che ora in me vive e vegeta, e che non mi consente più neppure un attimo d’incosciente ilarità. Un feroce persecutore che in seguito chiamerò "Tiranno" perchè come tale si comporta, intromettendosi nei miei pensieri.
   Tanto per darvi un’idea voglio raccontarvi con quanta cattiveria, tra la gelida nebbiolina che di solito ovatta la nostra città in determinati periodi dell’anno, un mattino dello scorso dicembre, mi ha stressato fino a quasi la paranoia.
   Quel giorno, nonostante il freddo tagliente, per le vie del Centro Storico c’era molta gente. Io per meta avevo Piazza San Carlo, dove intendevo gustare un buon caffé al Mokita.
Lungo Via Roma, imbellettata per le imminenti festività natalizie, alcuni elettricisti intenti al collaudo della fantasmagorica luminaria appena montata, salivano e scendevano vertiginose scale volanti; vociferando tra loro e scambiandosi ordini. Tra me e me stavo tentando di quantificare il costo finale degli addobbi, quando lui cominciò a rompere i santissimi.
   – Sono gli assurdi sprechi fatti in nome di un benessere collettivo tutto da ridiscutere. – mi sussurrò, senza neanche chiedere se gradissi o no la sua intromissione in quel momento.
   Quel che lui diceva collimava esattamente col mio pensiero, nella circostanza, però, forse per il troppo freddo o perchè a casa non funzionavano i termosifoni, non intendevo dargliela vinta.
   – Avanti, sputa il rospo! – gli intimai.
   – Stamani su La Stampa si divulga notizia di una giovane coppia, con due figli piccoli, sfrattati perchè non pagavano l’affitto, e che alla faccia della dignità umana e della tutela dei minori si è accampata sotto un ponte della Dora grossa.
   – Non vedo il nesso con l’illuminazione di Natale.
   – Sarebbe stato più onorevole togliere qualche lampadina per dare un tetto a quei bimbi! Ma forse per gli abitanti di questa città, le disavventure della famigliola non sono un problema. Tu che ne pensi?
   – L’affitto di casa va pagato!
   – E’ stata una morosità incolpevole: l’uomo fa parte dei tanti licenziati Fiat dopo la marcia silenziosa dei quarantamila colletti bianchi. Licenziamenti per giusta causa, dicono...e che io non condivido.
   – Licenziati per conclamati demeriti. Ed anche se così non fosse, chiamando in causa l’intera collettività tu generalizzi alquanto!
   – Una collettività con pochi ricchi che ignorano i poveri e con tantissimi poveri che si credono ricchi?
   – In Città non ci sono poveri ma operai metalmeccanici che producono automobili, e che ad ogni fine mese portano tanti bei soldini alle loro famiglie! – gli ricordai, sperando di essere lasciato in pace.
   – Sono baracchini Fiat. Che dopo la soppressione della Scala Mobile sfornano vetture in cambio di salari né troppo alti da consentire il dolce a fine pasto, né troppo bassi da negare il contorno. Questo fino a quando Agnelli, considerato un benefattore dell’umanità al posto di un avido imprenditore, finirà di automatizzare al cento per cento le sue catene di montaggio...lasciandoli tutti senza lavoro.
   – Molti degli ultimi licenziati devono dire grazie alle loro scorrettezze in fabbrica...visto e provato che uscivano da Mirafiori con dei pezzi di ricambio in tasca!
   – Stupido! La giusta causa è stata una furbesca trovata per tastare il polso a dei sindacati già indeboliti dall’altrettanta furbesca marcia silenziosa detta pocanzi.
   – Congetture. Le tue sono semplicemente delle congetture!
   – Te ne renderai conto in seguito, quando i licenziamenti si conteranno a decine di migliaia e quando i restanti operai, già licenziati in pectore, dovranno sbarcare il lunario affidandosi agli ammortizzatori sociali; cioè con soldi che andranno ad appesantiranno i bilanci statali: più o meno come i tanti dipendenti pubblici in esubero nel meridione d’Italia, o come i falsi invalidi dell’intera Penisola...che è lo stesso.
   – Le tue stronzate mi fanno ridere.
   – E tu ridi! Ne riparleremo il giorno in cui le catene di montaggio produrranno molte più automobili di adesso senza alcun bisogno di manodopera. Allora capirai che della memorabile casa automobilistica a cavallo tra gli anni 'Sessanta/settanta qui non è rimasto che il ricordo. E con i licenziamenti in massa che si faranno sentire ne vedrete tutti delle belle; altro che feste Natalizie con luci e botti! Se poi aggiungo che i tuoi metalmeccanici anziché scendere in piazza per evitare il tracollo economico della Città, ancora oggi si farebbero trapiantare dei calibri al posto del cuore solo per garantire sonni tranquilli agli azionisti Fiat, beh... forse potremmo parlare di torinesi con grandi capacità lavorative, ma senza quella lungimiranza che una sana filosofia di vita richiederebbe. Il tutto a scapito di chi un domani sarà facilmente licenziato...e quindi con un futuro senza soldi per pagare l’affitto di casa. Sono stato abbastanza chiaro?
   Di norma, e voi mi conoscete troppo bene per non saperlo, con chi crede di sanare i mali del mondo a colpi di bacchetta magica io non intavolo lunghi discorsi; anche se a volte alcune idee meriterebbero degli approfondimenti. Nell’occasione non fui da meno e quindi finsi d’interessarmi a ciò che andava sbraitando un elettricista. Lui ci cascò ed ammutolì subito. Nello stesso istante, però, un qualcosa cominciò a rodermi dentro. Perché, come da sempre sostengo, un conto è vivere in una società caratterizzata da stupidi egoismi destinati a finire per raggiunta maturità mentale di chi li pratica, altro invece è trovarsi al centro di un’epoca marchiata da una galoppante imbecillità collettiva; difficilmente curabile.
   Un altro nodo da sciogliere in fretta, dunque, se non volevo davvero correre il rischio di scrivere menzogne sulla natura del morbo che impedisce a Torino di crescere sotto il profilo dell’uomo che vive in simbiosi con l’altro che gli cammina accanto. Per questo rinunciai al caffé e continuai a camminare tra la gente, sperando di trovare risposte negli occhi delle persone che mi si paravano di fronte. Ma camminai per un giorno intero senza capirne le nascoste vedute: infagottati i corpi ed incappucciate le teste, infatti, ognuno andava per suo conto; con un muso lungo da sembrare quaresima.
   Certo che s’incontra ancora qualche viso sorridente per le vie della Città! E chi mai lo negherebbe? Questo però capita nella stagione estiva, quando il sole scaccia la ruggine invernale e fa sognare vacanze caraibiche anche a chi poi non avrà soldi abbastanza per un bagno in piscina. Ma da metà autunno a tutto febbraio, con l’eccessivo accumulo di smog dovuto alla messa in funzione dei caloriferi ed alla quasi totale mancanza di vento in alta quota, il cielo si fa plumbeo. L’aria diventa irrespirabile. I colori si appannano. La nebbia, dopo avere inghiottito le Alpi, laggiù, lontane, avanza spesso fino al Centro Storico; avviluppando ogni cosa. Le persone si direbbero mute e con la testa altrove e solo l’aria che corposa esce dalla loro bocca costituisce prova che trattasi ancora d’esseri viventi. Se così non fosse verrebbero da pensare alla città degli zombi.
   Io d’inverno odio tutto questo e quindi resto a lungo tappato in casa a scrivere la mia rabbia, o ad ascoltare tele-bugie. Nelle brevi sortite per l’acquisto del necessario alla sopravvivenza, il silenzio e la musoneria della gente fanno sì che io cammini rasentando i muri per non subirne il contagio. Ma non sempre ci riesco! A volte, forse per una specie di solidarietà dettata dal cuore e non dalla testa, mi adeguo al comune andazzo, e dopo aver perso incomprensibilmente l’uso della lingua saluto a gesti le tutte le persone conosciute che incontro lungo il cammino; risparmiando parole che in ogni caso non avrebbero presa. Al massimo parlo da solo ad alta voce. Come fanno i pazzi. E nell’irrazionalità del soliloquio; quasi per ripicca verso le follie umane, esco dalla stretta pelle dell’essere pensante e mi trasformo in un qualcosa senz’anima. In questa metamorfosi un po’ alla Kafka, io diventare pioggia battente che dopo aver spostato lo sporco ai margini delle strade finisce fatalmente nella rete fognaria; oppure un giornale...del quale è stata letta soltanto la pagina sportiva. Potrei però trasformarmi anche in uno dei tanti bidoni della spazzatura, svuotati a ritmi sempre più crescenti per un consumismo che rasenta l’assurdo. O nella spazzatura stessa: diventata tale sempre più spesso per scelte sbagliate...se non addirittura per eccedenza.
   Il pericolo di un isolamento totale però lo corro ad ogni fine mese, quando in molti...avendo già speso gli spiccioli dell’ultimo salario, aspettano con evidente ansia la prossima busta-paga. In tali frangenti, vedendo con quali sacrifici le famiglie a monoreddito si privano di tutto, o quasi, la voglia di gridare il “Si salvi chi può!” diventa un incubo del quale mi libererei volentieri; se trovassi almeno un solo uomo disposto a saltare con me lo steccato. Invece mi riscopro sempre più solo, a rischiare l’internamento in qualche manicomio per sani di mente. E voi tutto questo lo chiamate vivere?
   Senza contare Tiranno, che con la sua assillante presenza mi trascina in battibecchi che cominciano male e finiscono peggio. Come due giorni fa...alle mie spalle con la sua rottura:
   – Sai dirmi a che serve tanta tecnologia se d’indigenza si muore? – ha esordito.
   – Stammi lontano perchè oggi tira una brutta aria! – è stata la mia risposta.
   – Lo vedo! Io però insisto nel dirti che Torino è diventata troppo vecchia, e che nelle sue profonde rughe più non alligna il seme della filantropia. Né mi stancherò di dirti  che i tuoi concittadini...manipolati ormai da una classe dirigente che sfrutta ogni loro capacità produttiva...per poi incanalarli in un vicolo cieco all’interno del quale non si ammettono modelli alternativi, ormai sa fare solo la stessa cose...fino alla nausea.
   – Conosco la ripetitività della catena di montaggio. E per quanto concerne tutto il resto, se ancora non lo sai qui siamo in democrazia…con una classe dirigente scelta tra chi prende più voti.
   – Stai cercando di fare il furbo con me, dicendo il contrario di quello che pensi? Voi siete schiacciati elegantemente...ma come vermi, da una classe politica dittatura al soldo del nuovo padrone delle ferriere. Il vostro declino della Città sta in un fiume di droga per dei giovani senza futuro. Nei matrimoni sempre più vicini allo sfascio perché la famiglia ha perso la sua bellezza e la sua sacralità. Nei tanti beni pubblici deturpati o distrutti da un esercito di barbari. Nella stanchezza e nella solitudine collettiva dovuta anche al fatto chi Torino è vecchia  strutturalmente parlando:  non ha neppure una metropolitana e le ultime vere novità urbanistiche risalgono ai tempi d’Italia 1961!
   – Parla e sbraita quanto ti pare, tanto noi torneremo ad essere i fortunati abitanti di una città destinata a vivere un secondo boom economico!
   – Balle megagalattiche! Qui i ricchi diventeranno sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri: cosa che porta ad una sola conclusione...strade quanto prima allagate di sangue.
   – Per quanto costretto a darti ragione su alcuni dettagli, io resto dell’idea che noi abbiamo forza e carattere per risorgere alla grande.
   – Sicuro della ripetitività di certe rivoluzioni esistenziali, adesso parli per darti coraggio. Io e te ne riparleremo nel momento in cui la paura diventerà patologica e resterete tutti fottuti: ricchi e poveri!
   A presagi tanto funesti io avrei dovuto farci l’abitudine, considerando il cupo pessimismo ed il continuo almanaccare di Tiranno. Ma quando mi piomba alle spalle bisbigliando appena, mi sembra di sentire sul collo l’alito pesante della "signora in nero" e mi vengono i brividi. Allora allungo il passo per non sentirlo, oppure corro fino a farmi sanguinare i piedi. E se a volte sento la necessità di una breve sosta non è per arrendermi alla parca tentatrice, ma è per tirare il fiato. In ogni caso, a prescindere dal fatto che la vita non mi ha mai sorriso come avrei voluto, nessuno di voi deve minimamente pensare che io abbia perso il gusto di viverla; o quantomeno di vedere quel che ancora mi riserva.
   Stabiliti alcuni punti fermi, cari amici, io potrei chiudere qui questo dialogare a distanza; anche parchè non mi duole lasciarvi alle vostre stupidaggini. Prima di salutarvi voglio però spendere qualche parola sulle mie soste a rischio, accennate nel precedente capoverso. L'uso che ne faccio, infatti, oltre a ventilarmi i polmoni mi affranca dalle paure che in quei momenti mettono a rischio la mia tenuta mentale...lasciandomi intravedere barlumi di speranza grazie ai quali mi ritrovo architetto della fantasia con poteri tanto esclusivi da sbramare alcune mie non palesate voglie; compresa quella di esaudire i più disparati desideri di chi m’imbatte per strada. Ed è in questo ennesimo travestimento che dovreste vedermi…mentre con la bacchetta dei miracoli do un nuovo assetto alla mia Torino!
   Ritenendo improbabile che possiate vedermi all'opera, per soddisfare la vostra curiosità vi espongo per sommi capi la natura dei miei esclusivi interventi.
   Tanto per cominciare, in giornate particolarmente opache colloco un’immensa palla di fuoco a metà del cielo: così mi sembrerà di stare al Sole. Avvalendomi di centomila volenterose mani vado poi a cancellare tutte le scritte che imbrattano i muri...e che spesso offendono in comune senso del pudore. Sempre con l’ausilio delle stesse mani passo quindi alla raccolta delle tante cartacce buttate per terra da chi non ha un minimo di senso civico...e che volutamente ignora i cestini messi apposta agli angoli delle vie. A seguire, con freschi colori ridipingo ciò che il tempo ha opacizzato: ridando in tal modo tutto lo splendore che meritano ai palazzi d’epoca...che dichiarerò all’istante patrimonio della collettività. Quindi il tocco finale a balconi e ringhiere: dove la faranno da padrone i fiori. E questi sono i miei primi spettacolari interventi sulle cose. Durante i quali non accetto consigli da nessuno. Neppure dai più qualificati urbanisti.
   Circa il mio potere sulle persone, trattandosi di libero arbitrio subordinato a tematiche sociali sì ma di  pubblico interesse, non sempre mi riesce facile esaudire richieste che vanno oltre tali limiti. Tra me e quanti vorrebbero che ne soddisfacessi le più disparate voglie possono perciò sorgere contrasti verbali difficilmente gestibili, e che non di rado mi portano a riparare altrove. Ve ne propongo alcuni, presi dal "Diario delle mie inquietudini".
   Circondato da parecchi curiosi stavo contemplando un’edera rampicante, messa da me ad abbellire la parte cieca e scalcinata di un vecchio edificio confinante con la mia parrocchia, quando uno di loro mi disse:
   – Complimenti! Quel muro grigio così vicino alla chiesa era un pugno nello stomaco.
   – Ma quale chiesa e cazzi? La faccia sparire dalla nostra vista! – cercò di zittirlo un mangiapreti dal viso avvinazato.
   – La casa di Dio non si tocca! – insorse una vecchietta decrepita, senza denti e male in arnese.
   – La chiesa sì o la chiesa no? – chiesi io spazientito a tutti i presenti, già divisi in due opposte fazioni.
   L’accordo, comunque, non ci fu! Tra chi la voleva cotta e chi la voleva cruda prevalsero in larga misura gli indecisi. Dando a Tiranno lo spunto per intervenire.
   – Hai visto? In qualsiasi discussione, importante o meno, prevale sempre l’incertezza! – mi disse da tergo, per non farsi vedere.
   – Tu invece sei ovunque. Spunti come la gramigna!
   – No, questa volta è perchè voglio sentire la tua opinione in fatto di chiese.
   Volendo evitare un complicato discorso sulla mia fede, cosa che riguardava me soltanto, prestai orecchio ad altro.
   – Gli operai mi costano quasi quanto rendono! – sostenne un bugiardo imprenditore, assolutamente fuori luogo in quel preciso contesto.
   – La burocrazia è più lenta di una lumaca! – gli fece eco un altro.
   E poi ancora:
   – Tutto questo traffico ci rende sordi!
   – Un giudice minorile mi ha tolto un figlio di appena due anni perchè non avevo i mezzi necessari al suo mantenimento...è un delitto contro la famiglia!
   – Le tasse, signore. Le tasse!
   – Vorrei una casa che d’affitto non superi il dieci per cento del mio salario...come ai tempi del Duce!
   – Anch’io...però come ai tempi di Stalin!
   – Sì, come dite voi: "Compagno...tu lavori e io magno!"?   – Noi diciamo anche: "Fascisti…carogne…tornate nelle fogne!".
   Erano abitanti di una città in netto regresso e con una economia a caduta libera e coi lavoratori e le lavoratrici che ultimamente si vedevano centellinare i propri diritto come favori personali da pagare a caro prezzo. Una moltitudine  umana divisa ancora da vecchie animosità che riandavano ai violentemente ai tempi di Stalin piuttosto che a quelli di Mussolini o viceversa: senza tener conto, in entrambi i casi, dalle capacità governative dei due dittatori.
   Non volendo più ascoltare i piagnistei di chi per questioni di classi era obbligato a tirare la carretta, con un guizzo mollai uomini e donne per aggregarmi a dei chiassosi bambini, stazionanti sopra una discarica abusiva; tra calcinacci e vecchi copertoni d’auto. I ragazzini, convenuti da diverse contrade discutevano animatamente tra loro. Quasi tutti, a turno, lanciavano accuse contro gli adulti in genere; colpevoli a loro giudizio di non aver destinato spazi per i loro giochi all’aperto.
   Parlando con i più loquaci seppi che nella mattinata, dopo una non facile discussione sulle proprietà rachitizzanti e diseducative di tutti quei giochini elettronici avuti in dono dai rispettivi genitori, dopo averne fatto di comune accordo un gran falò, ora non sapevano con cosa giocare.
   In termini pediatrici, io non ero in grado di valutare gli immediati vantaggi di una tale scelta. Mi resi però conto che la loro precoce saggezza meritava un premio, e questo m’invogliò a fare qualcosa che spingesse quei piccoli amici a socializzare divertendosi. Perciò, ripescando in quelli che furono i desideri mancati della mia infanzia, in ogni quartiere piazzai altalene. Scivoli. Labirinti a specchio dove per uscire bisognava usare al meglio il senso d’orientamento e la memoria visiva. Giochi d’abilità e di tenuta atletica che permettessero ai più piccoli di crescere sani e forti. Alberi di cuccagna con ricchi premi per quanti sarebbero stati capaci di arrivare in cima. E giostre, tante giostre! Il tutto in aree verdi e sempre ben esposte al sole.
   Detto fatto, ne venne fuori un’allegria baraonda che andò oltre le mie attese. I ragazzini, felici di stare insieme, corsero a rotta di collo. Saltarono. Si cimentarono in esercizi ginnici che diedero colore alle loro cadaveriche guance. Ci fu chi si appassionò alla Moscacieca e chi alla Lippa, chi alla Cavallina e chi al Cerchio, chi al Battimuro e chi al Pari e Caffo, chi ai Quattro Cantoni e chi alla Marella. Tutti divertimenti collettivi a costo zero: compreso il rimpiattino e il Giravolta...una mia personale elaborazione del Saltamartino.
   Anche se in urto con la mia indole quieta e silenziosa, di quella piroettante parentesi mi resta un piacevole ricordo legato ad una spensierata fanciullezza mai da me vissuta. Né scorderò gli scroscianti applausi di cui fui sul finire dell’ultimo gioco il destinatario, quando mi elessero plebiscitariamente capo di tutti i bambini del mondo. Un titolo che già da solo mi gratificava oltre misura delle piccole cose fatte. Ma la giornata doveva mantenersi campale ed anche da quei bambini, sull’onda dell’ultimo applauso arrivò il brivido, quando mi chiesero la pena di morte per chi uccide le mamme.
    Fino a quel preciso istante la mia avversione verso la pena di morte non presentava crepe, e voi, avendone io parlato e scritto con estrema chiarezza nel corso del referendum che ne voleva il ripristino, conoscendone i motivi di fondo siete chiamati a darne testimonianza. Messo però con le spalle al muro dall’indiscutibile risolutezza dei richiedenti, per non contrariarli e stupendo innanzi tutto me stesso, promisi loro che mi sarei fatto promotore dell’istanza. Oggi, dopo gli ultimissimi fatti di cronaca nera; dove si legge addirittura che si ammazza per passatempo, quella opportunistica promessa mi affascina e mi sento quasi in animo di ribadirla; ben sapendo d’incorrere nelle critiche di chi non vuole che si tocchi Caino: almeno finché non lo avrà avuto come fratello disposto anche ad ucciderci per interessi.
   Al termine della libera uscita concessa da chi ne aveva la patria podestà, i bimbi presero la via d casa; mentre io li accompagnai con lo sguardo. Tutti. Uno ad uno. Finché non ne persi le ombre.
   Rimasto tristemente solo...e non più disposto ad incontri di altra natura, imboccai un vicolo che sembrava deserto. Invece ad aspettarmi c’era un capannello di donne, nascoste ad arte dietro un angolo.
   – I tanti dispiaceri hanno reso mio marito impotente…faccia qualcosa! – mi supplicò senza ritegno una di loro, sulla cinquantina: ancora in carne.
   – Non ho poteri sui cervelli umani! – le risposi.
   – E che c’entra la materia grigia col suo coso? – chiese di rimando lei.
   – Un pizzico di pudore, prego! – l’apostrofò l’immancabile moralista di turno.
   – Non le dia retta…questa è più sfacciata di una puttana! – appesantì la bigotta che si era schierata in precedenza contro l’abbattimento della chiesa, rispuntata di nuovo tra i piedi.
   L’imbarazzo che seguì fu tutto mio e cercai di uscirne con eleganza. In pratica, anche volendo ignorare le gratuite maldicenze, avrei dovuto spiegare alla piacente signora che il "coso" di suo marito, tanto per usare lo stesso linguaggio, non aveva nulla da spartire con la mia fantasiosa architettura. Per buona sorte ci pensò un’altra donna del gruppo a tirarmi fuori dall’impiccio.
   – Dia un posto di lavoro a mio figlio…che avendo superato i trentacinque anni di età nessuno più è propenso ad assumerlo: pur essendo laureato a pieni voti in botanica! – supplicò con commovente tenerezza.
   – A suo figlio affiderò il controllo del verde pubblico. – le promisi, andando col pensiero ai duemila platani pieni di pidocchi di Corso Regina Margherita.
   A ributtarmi tra le canne, senza neanche lasciarmi il tempo di riordinare le idee, ci pensò un corteo di scioperanti. Erano gli operai della Fiat di Rivalta sotto minaccia di licenziamento in massa. In seimila, circa, marciavano compatti verso la mia direzione: lanciando anatemi verso una classe padronale del tipo "Prendi i soldi pubblici e scappa dove nessuno te ne chiederà la restituzione". Si alludeva ovviamente alla casa automobilistica torinese, che dopo le innumerevoli sovvenzioni statali era in procinto di trasferire in Polonia la produzione di alcuni modelli di autovetture; togliendo lavoro alle maestranze del posto.
   La coreografia del corteo era quella di sempre: dirigenti sindacali in testa, qualche delegato di fabbrica con megafono in mano, cartelli e striscioni sui quali si potevano leggere i motivi della protesta, giovani del servizio d’ordine col piglio del capo, e quindi la massa…manipolata a dovere dai soliti marpioni della politica nazionale.
   Per motivi che risalivano al ‘Sessantotto, io conoscevo bene questi ultimi. Erano degli opportunisti privi di scrupoli. Politicanti che al grido di “Che Guevara” e di “Ho Chi Min” non esitarono, in precedenza, a cavalcare i moti studenteschi per costruirsi redditizie carriere all’interno del Pci.  Gli stessi che in seguito, pur di restare a galla, avevano spacciato per idee comuniste alcuni dogmi del Documento di Verona: facente capo alla Repubblica di Salò.
   Anche loro mi conoscevano. All’epoca, tra noi erano volate parole grosse perché non ho mai sopportato le bugie in politica, e loro in questo facevano gara a chi le sparava più grosse. Però dovevano soffrire d’amnesia, perchè e delle nostre liti non mantenevano ricordi. Alcuni di loro, da bravi figli di puttana quali erano, volendo strumentalizzare le mie magie cominciarono a chiamarmi confidenzialmente per nome. Ma ormai erano anni che avevo fatto depennare le mie generalità dal libro degli imbecilli, e per non cadere in tentazioni cercai riparo in fondo al codazzo.
   – Qui ti andrà peggio! – mi sussurrò qualcuno alle spalle.
   – Io non ho nulla da temere perché sono buono. – risposi senza voltarmi.
   – Allora, visto che ti senti benefattore dell’umanità, fammi fare una cinquina all’Otto! – cercò di approfittarne il furbacchione.
   – Soldi! Soldi! Soldi! Non ti serve altro?
   – Devo pagare un affitto di casa che è un’autentica mazzata! Poi viene la luce, il gas, la cambiale dei mobili, il bollo di circolazione dell’auto...altrimenti te la sequestrano. E poi ancora la benzina, il telefono, i libri per i bambini che studiano...e sono tre! Infine i vestiti e il riscaldamento senza contare le diverse una tantum su questo o su quello! Ti pare poco?
   – Detta così non c’è da stare allegri! – buttai a caso, sempre senza guardare in faccia il disperato.
   – Dimenticavo le multe per divieto di sosta senza scontrino sulle strisce blu...perchè spesso non ho i soldi!
   – Poi lasciare l’auto in zone franche: la Legge dice che il venti per cento dei parcheggi devono essere non a pagamento.
   – In tutta la Città, i parcheggi liberi non basterebbero al cinque per cento delle autovetture in movimento; il Comune con questo sistema spenna i cittadini e tu lo sai benissimo!
   – Lo so...faccio anch’io parte delle vittime.
   – Devo pagare l’Imposta sul Valore Aggiunto, il cannone televisivo, il ticket sanitario per le medicine non mutuabili. Dopo di che le trattenute in busta-paga, le tasse e le supertasse!
   – Qualcosa da rivedere ci sarebbe.
   – Allora fallo!
   – Io non posso. Sei tu che devi riappropriarti dello Stato e farlo funzionare ! – buttai lì, sperando invano che mi capisse.
   – Bisogna mettere in conto anche le sigarette.
   – Alt, il fumo fa male! – lo apostrofai, quasi felice di averlo preso in fallo.
   – Fumi pure tu!
   – Io però sto cercando disperatamente di smettere.
   – Le cose che ti avvelenano l’anima fanno più male delle sigarette!
   – Sì però…non lo nego, ma…vedi... – non sapendo che dire m’impappinai.
   – C’è ancora dell’altro! – aggiunse.
   – Cosa?
   – La tassa sull’immondizia, la tassa sulla casa e le tasse sulle tasse!
   – Queste ultime le hai già dette!
   – Quelle erano supertasse e non sovrattasse.
   – E che differenza ci sarebbe? S’è lecito!
   – Vuoi sfottermi, o fai il finto tonto? Secondo te come va definita l’aggiunta che un cittadino è obbligato a sborsare per un balzello pagato in ritardo, o peggio ancora per mancanza di quattrini al momento giusto? In altre parole, tutto ciò che in genere è chiamato "mora" al posto di strozzinaggio!
   – Non è un bel vivere, lo ammetto.
   – E lo dici a me...che lavorando dall’alba al tramonto inoltrato non riesco ad arrivare a fine mese?
   – Hai altre richieste, oltre i soldi?
   – Se non mi farai sbancare alla Lotteria Nazionale, o non mi farai fare un tredici al Totocalcio, mi toccherà lavorare come un mulo finché avrò vita!
   – E il tempo per i contatti umani? Qui potrei fare molto. – cercai di svicolare.
   – I contatti umani?... I rapporti interpersonali?...
   L’uomo non disse più nulla ed io mi girai a guardarlo. Era alto e magro. Aveva l’aspetto dell’eterno sfruttato. La fronte piena di rughe. Nei suoi occhi arrossati per il poco dormire, stazionavano tutti i patimenti e le preoccupazioni di una vita fatta di rinunzie. Per un attimo, intanto che la mia simpatia nei suoi confronti cresceva a dismisura, pensai alle settemila divinità della religione induista e lì per lì...inventando ancora una volta di sana pianta, ne feci il dio della sfiga.
   Lui a quel punto capì i miei limiti, in fatto di miracoli veri, e con un rapido dietro-front si eclissò. Lasciandomi solo in tutta quella bolgia.
   – Torna indietro! Parliamone! – gli gridai prima che sparisse del tutto.
   – Vai a fare in culo! – fu la sua risposta, che a me suonò come una condanna.
   Ovviamente molti dei fatti qui narrati sono sogni e come tali vanno presi e ridimensionati. Ciò malgrado, se non fosse per quel naturale istinto di conservazione presente per fortuna in ognuno di noi, cari amici, darei quasi all’instancabile parca la possibilità di agguantarmi.

                                                     *************** 

Occhi di gatta siamese
 
   Escludendo il primo appuntamento, avvenuto un giovedì sera, ormai si rivedevano da quattro mesi, ogni martedì ed ogni sabato. Gli orari variavano di poco: sempre dopo cena, in tarda serata. I luoghi d'incontro li stabiliva lei: mai gli stessi e preferibilmente in posti appartati, lontani da sguardi indiscreti. Queste erano le condizioni accettate da Stefano Jannelli per continuare ad incontrarsi con la donna che lo aveva reso schiavo dei sensi.
   Quel 25 novembre del 1970, si erano dati come punto di ritrovo l'ultimo lampione in cima alla via che da Cavoretto scende in Corso Moncalieri, all'estrema periferia sud di Torino. Lui era già lì, in frenetica attesa, con oltre un quarto d'ora d'anticipo. Chiuso nell'abitacolo del suo piccolo ma potente coupé rosso-fiamma, ascoltava musica dall'autoradio e lavorava di fantasia: pregustando il lussurioso menù che di solito la sua amante sapeva offrirgli.
   All'esterno la temperatura si manteneva umida e fredda. Dal vicino Po saliva una fitta nebbia che avviluppava ogni cosa…adesso lambiva appena la grossa lampada a carburo sotto la quale era posteggiata la vettura con dentro Jannelli, ma giusto di un altro motivetto e l'avrebbe resa invisibile, regalando allo spasimante la sensazione di trovarsi nel bel mezzo di una enorme nuvola bianca.
   Quando dal campanile della vicina Chiesa del Pilone partì il tocco che precedeva la mezzanotte, il di lei ritardo sforava l'ora: cosa piuttosto insolita vista la puntualità dimostrata dalla stessa nei precedenti incontri. Per l'incredulo Stefano, a quel punto, si trattò di decidere se aspettare ancora o mettere in moto ed andarsene, ma come sovente capita là dove il cuore prevale sulla ragione scelse la via della speranza e quindi non si mosse.
   L'aveva conosciuta per mera fatalità un pomeriggio dello scorso luglio, mentre percorreva a velocità sostenuta Corso Francia, diretto in Piazza della Repubblica...o Porta Palazzo. Se l'era vista sbucare davanti, all'improvviso, e per miracolo non la travolse. Guardava all'indietro, come se qualcuno la inseguisse per farle del male. Ma non è tutto! Ancor prima che il bravo guidatore si riavesse dello spavento, e senza curarsi dello scampato, lei fulminea aprì la portiera e gli sedette a fianco.
   – Portami lontano da qui, presto! – furono le sue prime parole.
   Poiché il tono era di quelli che non consentono repliche, nel timore di doversela vedere con una squilibrata, Stefano tergiversò.
   – Per favore! – supplicò allora lei, per convincerlo che oltre a non essere una demente conosceva anche le buone maniere.
   Stefano la guardò titubante. Tralasciando il disturbo che gliene poteva ancora venire, forse avrebbe gradito una pur semplice spiegazione. La donna piovutagli addosso però aveva occhi da gatta siamese che ammaliavano, e conseguentemente l'assecondò sorvolando su tutto. Subito dopo, per esplicita richiesta della volitiva ed occasionale compagna di viaggio, puntò verso la Crocetta, dove a sentir lei era attesa da un vecchio zio paralitico e despota.
   Le domande fatte dall'autista lungo il tragitto, per scoprire le cause che avevano indotto l'affascinante bellezza – sicuramente sotto i trent'anni – a rendersi protagonista della dissennata gimcana tra le sfreccianti auto di Corso Francia, furono molte e tutte senza risposta. Nel merito lei si dimostrò ostica, tenendo per se tutti i suoi segreti. E quando l'incuriosito Jannelli tentò d'insistere, con consumata abilità lei cambiava discorso, tanto che alla fine la donna sapeva tutto di lui, mentre quest'ultimo niente di lei, tranne il nome: Sonia. Ma era poi quello giusto? Stefano non ne fu del tutto convinto, anche se in seguito continuò a chiamarla così! Del resto, con quegli occhi da favola, per lui il nome non era importante.
   A far capitolare l'ingenuo giovanotto, però, non fu soltanto l'intenso azzurro degli occhi. Al pari d'Afrodite, Sonia possedeva un corpo da capogiro. Con un collo leggermente alla Modigliani. Due seni che non necessitavano di particolari sostegni per mettere in mostra tutta la loro esplosiva consistenza. Capelli folti e lucenti, di colore ramato, che le incorniciavano un  viso dai lineamenti perfetti. Infine le affusolate gambe: quanto di più eccitante non si potesse immaginare...con lei che sapeva metterle bene in mostra, facendo sempre molta attenzione alla gonna; mai troppo su né troppo giù.
   Nell'affermare che il fisico e la classe, facevano di Sonia una venere da copertina capace di proporsi senza civetteria o stonanti cornici di volgarità, è utile parimenti far notare che sotto il profilo caratteriale era di pochissime parole, oltre che dispersiva e diffidente quando i discorsi la riguardavano in prima persona. Era anche di una determinazione unica nel trasformare in vere e proprie minacce il suo invito di girare alla larga, se per caso un non gradito corteggiatore tentava insistentemente l'approccio.
   Persino le sue castigate scollature…rese tali specialmente nel periodo estivo, al solo fine di evitare che occhi penetranti violassero le sue nudità e lingue grasse ne traessero spunti per qualche volgare complimento, la dicevano lunga su quella che era la sua non facile abbordabilità. Cautela, quest'ultima, con la quale forse sperava di ridurre al minimo il rischio di trovarsi poi a dover intavolare discorsi che l'avrebbero catapultato in uno stato di eccitazione incontenibile, essendo femmina dal sangue bollente. E se con Stefano quell'impatto fortuito ebbe un seguito rosa, la ragione va cercata nella disarmante semplicità che faceva del giovane un simpaticone irresistibile. Ciò non esclude, però, una coriacea autodifesa da parte della donna: rimasta sempre sulle sue. Prova n'era che Stefano non conosceva ancora il suo cognome né indirizzo. Così come non aveva un recapito telefonico dove poterla rintracciare nel caso in cui non si fosse presentata ad uno solo dei tanti appuntamenti che seguirono. Ma ripartiamo dall'impatto iniziale di Corso Francia: prima che la portasse alla Crocetta, in Via Marco Polo, dove poi sarebbe scesa.
   Resosi conto che oltre a non essere pazza, la donna era anche di notevole bellezza, a Stefano saltarono i comandi che regolamentano gli ormoni sessuali e quindi ne subì l'intero fascino. Il fuoco dell'amore a prima vista gli avvampò le gote e gli sconvolse la mente. Pensando giusto se la immaginò in un secondo incontro…meno movimentato e più appagante. Con magari una cenetta in quel di Ponte Sassi. Dove il buon Sergio…unico in grado di competere con gli intingoli della cucina materna, dopo qualche prelibatezza a base di pesce avrebbe loro consigliato una piacevole digestione in quella che lui chiamava "Apriti Sesamo": l'appartamentino arredato con gusto ai piani alti del ristorante; sempre disponibile per gli amici più intimi che ne volevano approfittare dopo avere assaporato la sua cucina. Gli era di sostegno, in questo, il dato di fatto che lì erano capitolate Gianna, Marisa, Lorella! E quindi, dovette pensare Stefano, perché no Sonia?
   Forte delle sue passate esperienze, decise perciò che la faccenda non poteva dirsi conclusa appena giunti a destinazione.
   – Tu credi all'amore a prima vista o pensi che sia una frottola? – Le chiese lungo il tragitto, tanto per tastare il terreno.
   Dopo un profondo sospiro, venendo meno alla sua indole, Sonia rispose:
   – L'amore arriva nel momento in cui crediamo di avere le ali al posto delle braccia…una condizione tipica dell'età giovanile.
   – Tu ami camminare, o vorresti volare?
   – Io con l'amore posso giocarci, ma in quanto a crederci sono piuttosto scettica…avendo incontrato tempo addietro qualche canaglia di troppo.
   Per me l'amore tra un uomo ed una donna è come un nettare da sorseggiare in tutto l'arco della vita. Senza mai dimenticare, ovviamente, che un uomo senza amore è come un albero senza rami.
   – E la donna come un arido deserto…ma per favore!
   Ad alcune donne, per esempio, dopo tanto tempo passato al fianco di un uomo può capitare di vivere rapporti sessuali del tipo abitudinario: Diventando, quindi, acide e spigolose come vecchie zitelle.
   – Alla lunga tutto diventa abitudinario in una coppia…e questo vale anche per gli uomini! Perciò sarebbe più logico parlare dell'amore come stato di grazia a tempo determinato.
   – Ho sempre creduto alla coppia che si ama per tutta la vita! Con te, per esempio, io giurerei all'istante…e mi sembrerebbe di toccare il cielo con un dito.
   Intenzionato a fare breccia nel cuore della donna che lo aveva stregato, Stefano parlava in modo schietto e col cuore. Lei, invece, pur subendone la spregiudicatezza non voleva capitolare e rilanciò:
   – Questo significa semplicemente che il mio corpo è appetibile. Ma da qui a parlare d'amore ce ne va! Non ti pare?
   – Devo ammettere che neanche un uomo di dubbia identità sessuale resterebbe insensibile davanti al tuo corpo! Io però, come categoria, faccio parte di quelli che prima vogliono conoscere l'anima di chi lo possiede...così il dopo diventa favola.
   – A quante altre hai detto le stesse cose? 
    – Non sono alla prima esperienza, s’è questo che intendi. Ma ciò non toglie che con una donna della tua bellezza mi sarebbe piuttosto  difficile desiderarne un'altra. Devo credermi!
   La veritiera dichiarazione di Stefano ebbe l'effetto sperato e Sonia, che prima aveva tenuto ben nascosto un brivido alla schiena per non apparire interessata all'argomento – complice anche una temperatura che avvampava il sangue – si lasciò andare: evidenziando un improvviso godimento che le fece chiudere per qualche istante gli occhi. Ripresasi tentò di mettere una dignitosa pezza al suo impaccio, irrigidendosi.  Era però una finta e Stefano incalzò:
   – Possiamo ancora vederci…almeno una volta?
   – Sì! – fu la semplice resa di Sonia, mentre la sua finta corazza fondeva davanti al fuoco dell'amore.
   – Domani?
   – Domani.
   – Dimmi dove e quando, ed io sarò lì ad aspettarti a qualsiasi ora del giorno o della notte.
   Lui adesso parlava col cuore e la spogliava con gli occhi. Lei, invece, mentre gli fissava un preciso appuntamento per l'indomani godeva con la mente…e sorrise all'idea quando nell'inumidirsi le labbra arse dalla sete, l'arrapato giovanotto, sognante, ne apprezzò la ben distribuita carnosità.
   Giunti in Crocetta, in un angolo poco frequentato di Corso Trento, Sonia si riassettò alla meglio i capelli, scompigliati dalla corsa a piedi di poco prima, e disse a Stefano di fermare l'auto. Infine scese, allontanandosi senza voltarsi in un vicolo stretto e con divieto di transito…probabilmente per non essere seguita.
   Sicuro di rivederla il giorno dopo, finché gli fu possibile lui la seguì con lo sguardo. Ne ammirò il portamento altero ed il deciso passo, ingelosendosi anche di quanti al suo passaggio si giravano per palpeggiarne le fattezze con lo sguardo.
   Non essendoci altro che potesse calamitare la sua attenzione, sparita la donna Stefano mise in moto e ripartì senza un punto d'arrivo prestabilito. Era felice e guidava fischiettando. Ogni tanto salutava gli alberi e tutto ciò che si muoveva.
   La sera si recò a cenare da Sergio e mentre gustava il suo piatto preferito, la zuppa di pesce alla Ponte Sassi, all'amico che lo serviva personalmente e che gli cenava a fianco, con sacramentali… come se stesse parlando della Madonna, raccontò tutti i particolari di quell'incredibile incontro.
   – E se domani ti desse il cane? – insinuò Sergio, sull'ultima portata.
   – Che significa?
   – In torinese sta per bidone, cioè…e se domani lei non venisse all'appuntamento?
    – Cosa te lo fa pensare?
   – Niente, dicevo tanto per dire.
   – Ti va di fare l'uccellaccio del malaugurio?
   – Sto cercando di rimetterti con i piedi per terra e di farti perdere quell'aria di scemo che ti ritrovi. Se vogliamo essere obiettivi: non hai un suo recapito…e potresti non rivederla mai più!
   C'era del vero in ciò che l'amico ristoratore andava dicendo, e lui poteva almeno prenderla in considerazione come lontana ipotesi. Invece al pensiero s'infastidì, e chiuse la parentesi con un secco:
   – Verrà!
   A cena finita, Stefano lasciò locale per fare tappa al Bar Platti di Corso Vittorio Emanuele II, dove già da un pezzo lo stavano aspettando i vecchi compagni d'Università, e dove con loro – come sovente capitava nelle calde serate estive fin da quando erano tutti delle matricole – avrebbe censire i più bei glutei femminili a passeggio da quelle parti. Un divertimento, questo, favorito ovviamente dalla succinta moda che ogni stagiona calda in genere comporta, e che di solito riusciva ad impegnare il gruppo fino a notte fonda.
   Della boccaccesca giuria, egli era membro indispensabile sia perché era considerato un esperto con esperienza da vendere, sia per le esilaranti battute sia sapeva improvvisare quando certi punti anatomici sotto esame lasciavano a desiderare. Ma culi a parte, tra quei buontemponi capaci di ridere persino sulle proprie disgrazie, l'allegria era una cliente fissa, e quindi quattro risate e quattro barzellette sconce – si disse più volte lungo il tragitto – lo avrebbero aiutato a superare una nottata che prevedeva lunga e insonne: preso com'era a contare le ore mancanti all'appuntamento con Sonia.
   Tra gli accordi che cementavano il gruppetto, c'era anche la consolidata regola secondo cui ogni componente aveva l'obbligo di raccontare a gli altri, possibilmente in riunione plenaria e con dovizia di particolari, i suoi poco impegnativi amorazzi…una cameratesca intesa che aveva come finalità la consegna delle necessarie informazioni a quanti di loro…a storia finita, avrebbero voluto amoreggiare con la stessa ragazza.
   Quella sera, con davanti un'enorme coppa di gelato alla fragola, di cui Jannelli era goloso, tra gli amici che al solo vederlo avevano intuito qualcosa, egli decise di non mettere in piazza il nome della donna che aveva conosciuto nel pomeriggio e che già sentiva d'amare. Senza considerarlo un tradimento, quella sera egli capì che nella vita ci sono cose di cui poter parlare pubblicamente e cose di cui tacere, riservandosi per queste ultime il diritto di goderne o di soffrirne in silenzio per proprio conto, cioè senza coinvolgimenti esterni. Questa nuova concezione del privato lo portò ad un silenzio mai messo in atto prima, e subito dopo a riflettere sul dubbio espresso in precedenza dall'amico Sergio sul seguito di un'avventura talmente strana, la sua, da non lasciare molto spazio per il futuro...pensiero che cominciava già a dare colpi allo stomaco.
   La serata non era allegra come al solito. Le assenze di alcuni amici partiti nel pomeriggio per il mare si faceva sentire, e quindi almeno per un po' quel suo mantenersi estraneo alla comune chiacchiera passò sotto silenzio. Fu il gelato che continuava a sciogliersi malgrado la golosità ben nota di  Stefano per quel gusto, che convinse Ninetto Belloni e Luca Scandicci – due degli amici rimasti a farle ferie in Città – a pretendere che lui esternasse i suoi reconditi pensieri. Però Stefano non era dell'avviso e continuò a macinare dentro, dando ancora di più da pensare agli amici. Appena capì che quel suo silenzio poteva incrinare lo spirito cameratesco del gruppo, verso la mezzanotte, con la scusa di un forte mal di denti, si alzò e fece ritorno a casa in cerca di solitudine.
   Ad aspettarlo nell'ampia cucina che dava sull'ingresso, apparentemente indaffarata tra pentole e fornelli, c'era la madre...che pur avendogli già preparata la torta del ventinovesimo compleanno già nelle prime ore del pomeriggio, lo aspettava con l'ansia di sempre. L'anziana genitrice, infatti, non si rassegnava alla totale indipendenza del figlio e quindi, di proposito, ogni notte si attardava fino al suo rientro nelle mura domestiche. Pretendere che rinunciasse a quella stressante abitudine – come aveva tentato in diverse occasioni il figlio – sarebbe stato del tutto inutile, la scusante era sempre la stessa: approntare qualche intingolo per il giorno dopo oppure la crostata di mele...dolce gradito a tutta la famiglia. Vedendola, Stefano non se la sentì d'insistere ancora una volta sul concetto della maggiore età e, si ritirò nella sua camera, dopo averla omaggiata amorevolmente con un bacio sulla nuca.
   Sdraiato sulle fresche lenzuola di bucato, e col viso rivolto alla parete su cui troneggiavano gli enormi manifesti di Che Guevara Bob Dylan e Martyn Luter King, quella che per Stefano poteva essere una notte insonne, all'insegna del dubbio sull'appuntamento sì o sull'appuntamento non con Sonia, alla fine risultò molto più corta e riposante del previsto...al pensiero che quello sfogliar di margherita non avrebbe dato pensiero ai suoi tre eroi preferiti. Persino la rossiccia luce dell'insegna luminosa posta sull'altro lato della via, di fronte alla sua finestra, e che ad intervalli regolari gli entrava in camera fino all'alba, innervosendolo spesso, in quella circostanza, contando quante volte si accendeva e si spegneva, finì col diventare un valido aiuto nel conciliargli il sonno, come da bambino quando contava fino a mille prima di addormentarsi.
   Allo spuntare del giorno seguente Stefano fu lesto a mettersi in piedi. Abituato a vederlo poltrire fino a tarda mattina, la madre, alquanto meravigliata, corse a preparargli la colazione come lui la voleva: a base di yogurt e frutta fresca di stagione. Nel corridoio incrociò il padre, che lo aveva preceduto nell'utilizzo de bagno.
   – Ciao! – lo salutò.
   – Uhm! – fu risposta.
   Da quando, finiti gli studi, Stefano si era dato alla regia nella prima televisione privata d'Italia, rifiutando il posto in banca procuratogli dal padre tramite una sua vecchia amicizia, tra i due era scesa una specie di cortina fumogena che li rendeva invisibili l'uno all'altro. Il loro quasi parlare a gesti, orma, più che manifestare qualsivoglia accenno di affettuosità, si limitava di fatto alle scarse notizie di comune interesse. Le poche frasi a lunga gittata, con esclusive cadenze domenicali, erano  battute del tipo: "Il portiere della tua Juve dovrebbe raccattare altri tipi di palle!". Oppure, per contro: "Al nuovo mediano di spinta del tuo Toro devono aver messo le ganasce!"; legate entrambe delle diverse fortune calcistiche di Juventus e Torino: le due squadre torinesi per le quali tifavano. Per il resto della settimana, e questo ormai durava da mesi, il loro era diventato un deserto senza vento; in altre parole un sopportarsi vicendevolmente all'insegna dell'assoluto mutismo...fatti salvi i saluti d'obbligo per rendere meno amara la pillola alla padrona di casa...più volte intervenuta in modo risoluto affinché la smettessero d'ignorarsi a vicenda come due estranei.
   Si era alle prime fasi di questa guerra fredda casalinga ed al figlio, assai portato a cuocere nel suo brodo, il tutto non dispiaceva più di tanto perché il padre, un maresciallo dei carabinieri ormai in pensione, per una specie di callo professionale era un autentico impiccione: nel senso che da lui, ufficialmente in quanto padre preoccupato della modernità, voleva sempre sapere cosa aveva fatto il giorno prima e cosa il giorno dopo. Con quella specie di rottura, invece, Stefano per la prima volta in vita sua non si sentiva più come un eterno indagato.
   Dopo una intensa mattinata lavorativa, impiegata tutta nella realizzazione di alcune difficilissime riprese esterne, Per Stefano venne finalmente la tanto sospirata ora del primo appuntamento con Sonia. Lavato, sbarbato, stirato e profumato in ogni parte del corpo, egli giunse sul posto ostentando una sicurezza che non avrebbe tratto in inganno neanche il più sprovveduto degli osservatori...visto che per l'emozione gli tremavano finanche le gambe.
   Lei lo stava già aspettando. Indossava un elegante abito di seta a sfondo rosa con dei piccoli disegni geometrici di colore grigio-perla; un capo d'alta sartoria che la sublimava. Le scarpe e la borsa, dello stesso grigio, costituivano un tocco di classe in più.
   Sui saluti lui si strofinò gli occhi, incredulo. Per convincersi che la visione non era un miraggio le toccò una mano. Poi gliela strinse tra le sue: palpandone la delicata consistenza.
   – Stupito di vedermi? – chiese lei sorridendo, e  lasciandolo fare.
   – Sì...ma da tanta fortuna. – rispose Stefano, continuando a guardarla incantato.
   – Io mantengo sempre le promesse...specialmente quando si tratta di un appuntamento dato ad un uomo che ha la sfacciataggine di spogliare le donne prima con lo sguardo. E poi, essere mangiata da uno come te potrebbe piacermi!
   Intanto era salita in macchina e per cominciare, nei limiti della decenza, fece in modo che la frusciante gonna concedesse qualcosa di erotico alla vista. Cogliendolo poi di sorpresa, diede un bacio sulla guancia a Stefano e continuò:
   – Ho forse sbagliato a venire?
   – Diversamente sarei impazzito.
   – Volevo farlo, ma le tue fameliche occhiate di ieri mi hanno convinto a mantenere la parola data.
   – Sarebbe una gran fatica, guardarti in maniera diversa. Ed in ogni caso dicono che al cuore non si comanda. Né si possono imbrigliare certi desideri...le scintille che li generano scoccano all'improvviso.
   – Sei galante, ma non parlarmi d'amore a prima vista perché sarebbe prematuro e bugiardo.
   – Il tuo nome è davvero Sonia?
   – Certamente!
   – Dove ti porto, Sonia?
   – In un posto dove non c'è anima viva e dove ci si può abbronzare al sole.
   – Io non ho il costume da bagno addosso!
   – Chi se ne frega, prenderemo l'abbronzatura integrale.
   – Veramente io... – farfugliò Stefano, rosso in viso.
   – Cosa c'è, diventi timido all'improvviso?
   – No. E' che non mi aspettavo tanta fortuna, come inizio!
   – Non c'entra la fortuna. E' che vogliamo far sesso insieme fin dal primo momento. E non vedo perché dovremmo perdere tempo in chiacchiere! Quindi datti una regolata perché prima di     
sera mi devi riportare esattamente allo stesso punto in cui mi stai prendendo.
   – Potremmo andare tra le piante selvatiche in riva all'Orco, nelle vicinanze di Chivasso. Dove io vado a tuffarmi in acqua, quando fa troppo caldo come oggi! Ti va?
   – Andrà benissimo.
   – Ovviamente mancheremo di comodità!
   – Non ci serviranno. Siamo giovani e possiamo farne a meno.
   Indubbia la verità di Sonia, secondo cui la foga giovanile, in fatto di sesso, sa inventarsi letti di piume in ogni cantone! E così fu: Stefano e Sonia, pur potendo disporre a piacimento del piccolo ma bene accessoriato appartamentino di Sergio, per tutta l'estate e per metà autunno degli anni 'Settanta si amarono appassionatamente ogni martedì ed ogni sabato, sempre all'aria aperta. A volte lungo le rive sabbiose dell'orco o del Sangone. Altre su occasionali materassi di foglie secche. Altre ancora in uno dei posti inventati al momento...quando non riuscivano a frenare il loro ardore.
   Tutto come in un magnifico sogno, dunque, per l'innamoratissimo Jannelli? Non proprio! Perché mentre da un lato avrebbe potuto menar vanto di conoscere ogni punto sensibile del corpo di Sonia, grazie al totale coinvolgimento della donna giochi amorosi, dall'altro, malgrado i tentativi ripetuti, fino a quella fatidica sera di ottobre nulla di più era riuscito a scoprire in merito alla sua reale identità. Così come nulla aveva saputo ancora del di lei lavoro e di quel suo vecchio zio...che rompeva di continuo con le sue maledette pretese di volerla in casa sempre alla stessa ora.
   Soltanto una volta – mentre erano alla ricerca di un posto dove dare via libera alle loro reciproche voglie – Sonia si lasciò andare confidandogli di essere nata a Trento da padre italiano e da madre austriaca, per il resto si era sempre chiusa a riccio, ribadendo il concetto già più volte espresso, che quella loro passione doveva basarsi sul presente. Un presente quindi senza investigazioni. Le volte invece che il cocciuto Stefano premeva più del solito, argomentando il senso delle sue domande, lei lo imboniva con amorevoli carezze capaci di distrarlo. Intonando poi in falsetto il "Que serà, serà!": un successo canoro di fine anni 'Cinquanta" e che lasciava al tempo la facoltà di decidere sul futuro destino degli innamorati.
   A questo stava pensando Stefano, mentre ancora speranzoso cercava un'improbabile visione nel  muro di nebbia. Pur essendo giunto alla conclusione che quel rapporto andava considerato come una storia di sesso gestita esclusivamente dalla donna, la speranza di vederne apparire la sagoma nonostante l'enorme ritardo non era ancora sparita del tutto. Fu però questioni di minuti: sul Bolero di Revel, diffuso a basso volume dall'autoradio, il suo sogno d'amore si spense e privato della sua indubbia capacita nel dare un senso compiuto alle cose.
   Un sguardo ancora nella nebbia, sempre più fitta, prima che il potente rombo del motore rompesse il silenzio della notte. Poi giù in Corso Moncalieri verso la Gran Madre. Col piede pigiato sull'acceleratore e col contachilometri del rosso coupé che segnava centotrenta all'ora, ignorando i limiti di velocità e divorando l'umido asfalto. E poi ancora lo schianto. Terribile.
   Prima che l'ambulanza, a sirene spiegate, lo portasse al più vicino ospedale, ci vollero i Vigili del Fuoco e la fiamma ossidrica. Al nosocomio Stefano giunse in coma profondo. Il viavai dei medici impegnati nel disperato tentativo di salvargli la vita andò avanti l'intera la notte e quando uscì dalla sala operatoria, anche se la prognosi restava riservatissima si parlò di miracolo.
   Durante lo stato comatosi – protrattosi ben oltre le più nere previsioni – per volere del chirurgo che lo aveva ricompattato il redivivo fu tenuto costantemente sotto sedativi ed affidato all'attento controllo di suor Geltrude: coscienziosa responsabile del Reparto Rianimazione.
   La suora, in questo, fu esemplare. E fece più del dovuto per quel giovane paziente che da oltre venti giorni lottava tra la vita e la morte. Nelle ore notturne fu vista spesso al suo capezzale, in preghiera, raccomandandolo a santi e madonne. Altre volte, sorretta dalla sua fede religiosa...e con la speranza d'intravedere nell'infermo i sintomi di un sia pur leggero miglioramento, promise penitenze e fioretti al Bambinello di Betlem, di cui era devota.
   Il 24 dicembre, ad un mese esatto del ricovero, il chirurgo che lo aveva tenuto in vita per i capelli ebbe finalmente dal personale medico e paramedico, le informazioni necessarie per sciogliere la prognosi e per comunicare, a parenti ed amici, che il giovane Jannelli era fuori pericolo, e che non doveva essere assolutamente disturbato perché stava dormendo il sonno del grande recupero.
   Stefano aprì gli occhi il giorno di Natale, alle prime luci dell'alba. Aveva la fronte imperlata di sudore...probabilmente dovuto allo sforzo nella lunga fuga dal luogo senza ritorno. Suor Geltrude lo guardò e sorrise felice. Anche lui, tra la scarsa facoltà di sintesi del momento,la guadò.
   – Dove sono? – chiese.
   – Alle Molinette...dopo un pauroso incidente d'auto.
   – Che giorno è oggi?
   – Buon Natale! Oggi il mondo cristiano festeggia la nascita di Gesù Bambino: protettore della mia Congregazione ed anche tuo...da un mese a questa parte.
   – So morendo?
   – Sei ancora grave ma ti salverai. Ora però devo andare ad assistere altri degenti.
   – Non lasciarmi...per favore: se mi lascerai ancora una sola volta mi lascerò morire!
    Sconvolta dalla supplica e  con i brividi lungo la schiena, suor Geltrude finì col prendere tra la sue mani la testa incerottata del redivivo. Lui si lasciò accarezzare.
   – Devo andare da un nonnino solo al mondo, che rifiuta le medicine e sta lasciandosi morire.
   – Anch'io mi lascerò morire...senza di te!
    Le lacrime di Sonia non bastarono a tranquillizzare Stefano. Ci volle un suo bacio sulla bocca e la formale promessa:
   – Il mio amore ti salverà! E' il regalo che ti manda Gesù Bambino.
   Stefano la guardo e si perse...nei suoi occhi di gatta siamese.
     
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Un matrimonio moderno

   Quando i matrimoni maturavano all’ombra degli stessi vicoli o sui banchi delle stesse scuole, se non addirittura sugli stessi pianerottoli che avevano visti crescere i futuri sposi, in genere si assisteva al formarsi di coppie tutto sommati accettabili, sia per affiatamento che per spirito di sacrificio. La continua vicinanza dei ragazzi, infatti, con lui che s’innamorava di lei prima ancora che fiorisse e diventasse donna...e con quest’ultimo che n'assecondava i sospiri, costituivano un ottimo banco di prova per la tenuta ad oltranza di quella che sarebbe stata la loro vita in comune.
   Anche l’ingenua costruzione di castelli in aria e quel promettersi senza badare a spese la luna nel pozzo, all’epoca, davano un notevole contributo ai coniugi in erba: erano giochi d’amore con i quali si allenavano nel sostenersi a vicenda  fino all’ultimo respiro!
   Ovviamente quelli erano tempi in cui ci si sposava per convinzione, e quindi prima di pronunciare il fatidico "Sì!" temporeggiavano un po’ tutti...le ragazze in testa: alla bisogna brave quanto Penelope nel tessere la tela. Inoltre, in quegli anni la famiglia era il cardine portante di una società moralmente sana e proiettata verso un radioso avvenire. Mentre la nascita di un bimbo era vista come il frutto dell’amore...e non come una fastidiosa presenza da buttare dalla finestra o nel cassonetto della spazzatura.
   Poi arrivò la fretta e ci fu un radicale cambiamento dei costumi, tanto che alcuni fondamentali valori persero il loro fascino a favore della dissolutezza e dell’egoismo a tutto tondo. Alcune formazioni politiche, approfittando della metamorfosi, contrapposero i loro interessi di bottega a quelli collettivi: fino a ridurre l’indissolubile vincolo del matrimonio a semplice patto a due da sciogliersi a piacimento col divorzio, che chiesto ed ottenuto da chi aveva solo a cuore le sorti di poche coppie male assortite, a scapito delle collaudate regole a tutela della famiglia, finì con l’accorciare i tempi della riflessione.
   Adesso ci si conosce la sera e ci si sposa il mattino dopo, convinti che l’insorgere di problemi dovuti a questa rapida decisione si possano poi risolvere facilmente, col ripudio legalizzato. Siamo addirittura alla catastrofe se si pensa che combinare frettolosi matrimoni è diventata, oggi, una fiorente professione. Anzi, un mercato sempre aperto per chi non intende perdere tempo in questioni di cuore! Di conseguenza, attenendosi al numero sempre crescente di divorzi, si può affermare che se le mode rispecchiano le tendenze di un’epoca, almeno sotto questo profilo, noi non stiamo certo producendo virtuosi modelli da lasciare in eredità alle future generazioni. Sono moltissime, infatti, le persone che per mettere su famiglia si rivolgono ai sensali dell’amore. Il guaio è che tutte, stupidamente, pensano di trovare l’anima gemella...magari d’occasione. E poco importa se spesso e volentieri questi facili acquisti non hanno neppure i requisiti del palliativo.
   In ogni caso, questo non è un pistolotto contro il divorzio in quanto tale, e neppure un tentativo per indurre gli organi legiferanti a ridurne il raggio d’azione. Ormai si spera solo in una più attenta analisi…da parte dei diretti interessati, verso quei matrimoni rischiosi in partenza. In altre parole: verso quei connubi fallimentari fin dall’inizio per mancanza d’intesa...e per i quali non sempre il divorzio costituisce una facile via di fuga. Si pensi per esempio a quelle coppie che prima di lasciarsi, tra una lite e l’altra, hanno messo al mondo una nidiata di bambini. Oppure a quei coniugi già avanti negli anni, che dopo una vita passata insieme, sognando magari di rinverdire con una nuova compagna i focosi stimoli d’antica memoria, divorziano anche quando non hanno più i numeri per allestire una stuzzicante vetrina di se stessi...ovvero quando non dispongono più di quelle fattezze fisiche capaci di accendere il fuoco della passione nell’altro sesso.
   In questi ultimi due casi – e conviene farne parola! – oltre al cordiale disprezzo dei parenti acquisiti col vecchio matrimonio, per i protagonisti del divorzio potrebbe anche esserci una vecchiaia piena di solitudine da tagliare a fette; per non dire dei quotidiani litigi di quelle coppie fabbricate per corrispondenza…che per fattori economici o per questione d’immagine hanno messo in preventivo l’idea di un eventuale divorzio riparatore fin dal primo giorno! Alla luce di questi fondati riscontri appare evidente, dunque, che quando c’è di mezzo il cuore bisogna andarci con i piedi di piombo. E se proprio si è alla ricerca dell’anima gemella, tanto vale cerarsela da soli: senza demandare ad altri l’incarico.
   Anche in passato si manipolavano i matrimoni, specialmente nell’alta borghesia e tra le vecchie case regnanti. Nel merito, la Storia parla di padri irremovibili che per convenienze politiche, o per dare lustro al proprio casato, imponevano come mariti alle figlie uomini ricchi e potenti. Allora il compito delle madri – spesso vittime dello stesso abuso – era quello di convincere qualche riottosa donzella a sottostare ai voleri paterni. Cosa che facevano ricorrendo a sfacciate menzogne del tipo: "L’intesa verrà dopo...nel talamo!"...quasi a convincerle che le stanze da letto fossero i veri tabernacoli dell’amore, e che le violenze sessuali in esse subite fossero il meglio per infondere un sentimento così personale come l’innamoramento. Ma era una bugia all’epoca e come tale va considerata ai nostri giorni...tenuto conto che di eccessiva modernità si può anche morire.
   Con la conferma di una nutrita schiera d'uomini e donne aventi come esperienza personale una lunga vita di coppia, qui si sostiene che per un felice matrimonio servono innanzi tutto due cuori – anche senza la famosa capanna – che battono all’unisono fin dal primo momento. Una buona dose di affinità di vedute nell’affrontare gli ostacoli del quotidiano vivere. Il sapersi dare all’altro sesso senza reticenze. Ed infine la massima disponibilità nel sopportarsi a vicenda.
   Perciò, nei matrimoni non potranno mai esserci spazi per delle interferenze esterne. Ed è pura stupidità credere che una qualsivoglia agenzia matrimoniale, dopo una frammentaria raccolta di dati su persone ancora tutte da scoprire sotto il profilo delle proprie aspettative, possa fornire a richiesta una scheda particolareggiata dell’anima gemella.
   Riagganciandoci ad alcune premesse, noi qui non vogliamo lanciare allarmi. Di nessun genere. Anche se ce ne sarebbe la necessità perché, come recita un proverbio cinese, “Solo un cane pazzo insegue ombra di uccello in volo”! Tutto al più...a qualche studioso di costumi che volesse abbaiare alla luna si potrebbe sempre dire che ai grassi fatturati che di anno in anno salgono in misura esponenziale, questi fabbricanti dovrebbero aggiungere il numero di coppie che di anno in anno scoppiano grazie alla loro inventiva nel mischiare il sacro con il profano.
   A quali conseguenze sociale porterà questa crescente follia non sappiamo dare risposta! Ma la domanda è d’obbligo: soddisfatto l’ardore delle prime notti...dovuto grosso modo alla stretta vicinanza di due corpi di sesso opposto...e dei quali l’uno disconosce gli intimi segreti dell’altro, cosa ne avranno alla fine, di concreto, i tanti frequentatori di queste secche sentimentali? A conoscenza di alcune ricerche fatte negli Stati Uniti d’America, dove i sentimenti viaggiano su Internet, per noi la risposta è facile: le coppie formatesi con tanto squallore viaggeranno come delle cartoline d’auguri senza i relativi francobolli. E mentre da un lato ci saranno maschi pronti a consolarsi con dei bestiali amplessi, dall’altro ci saranno sicuramente donne pronte a maledire dei freddi calcolatori elettronici...pessimi conoscitore dell’animo umano!
   La storia di Teresa Altavilla e di Paolo Sartori – nata da una ripicca amorosa – senza l’intervento dell’agenzia matrimoniale "Due cuori e una capanna", difficilmente sarebbe andata oltre le mura domestiche di una qualsivoglia civile abitazione. Noi la proponiamo perché essa entra a piedi uniti nella casistica riguardante il cappello d’inizio.
   Teresa non era né bella né brutta...anche se con qualche preferenza per il primo aggettivo. Remissiva e di carattere dolce, specialmente con i più piccoli, a detta di chi la conosceva bene, lei diventava sprezzante del pericolo e sempre pronta a vedersela con chiunque...quando tentavano d’intimidirla o quando non la prendevano seriamente. Per il resto aveva una manciata di lentiggini sulle gote, ed un sorriso smagliante che la rendevano simpatica a prima vista. Andava sempre vestita a puntino. Amava la musica a basso spreco di decibel. Era abilissima nel combinare feste e cenoni. Si riteneva la donna di Paolo: al quale aveva regalato la sua verginità nel giorno del suo diciannovesimo compleanno, e dal quale pretendeva la massima dedizione.
   Circa quest’ultimo, invece, era la sintesi dell’eterno insoddisfatto in cerca di chiodi per scacciarne altri, camminando però sempre sugli orli dei burroni come una certa mula di manzoniana memoria. Odiava per principio qualsiasi lavoro, e quindi osteggiava il padre che lo voleva al suo fianco nell’azienda di famiglia: una casa vinicola in grande espansione e con un fatturato da capogiro, dove il fortunato rampollo si presentava ogni fine mese per intascare l’assegno di mantenimento che l’anziano genitore, con precisione svizzera, gli dava al grido di: "Complimenti per la rapina!".
   Che Paolo e Teresa si completassero a vicenda, però, lo davano per scontato persino i più scettici. Così come si dava per certo che la loro a volte movimentata relazione alla fine li avrebbe portati all’altare…se lei, spinta all’improvviso da una incontenibile voglia di diventare signora, non gli avesse imposto una data quale limite massimo per impalmarle. Scadenza, quest’ultima, che non ammetteva repliche.
   Colto impreparato Paolo, non prese con la dovuta serietà la minaccia e come prima reazione, sicuro di poterla domare a piacimento, le rise in faccia. Più tardi, tastatane la durezza, chiamò in causa la madre malata di cuore, del tutto contraria – a suo dire – al fatto che si ammogliasse prima di aver preso in mano la redditizia attività paterna...scusa niente affatto veritiera perché la genitrice, in più di una circostanze, aveva sollecitato Teresa a sposarlo al più presto possibile. Inoltre, stufo dei continui litigi dovuti al suo bugiardo temporeggiare, egli lasciò che l’ultimatum scadesse con un nulla di fatto. Sapeva di amarla, questo sì! Ma considerava il matrimonio una gabbia dorata della quale, almeno per il momento, ne temeva l’accesso. Lei, per contro, non ci pensò due volte a piantarlo in asso. Anzi, quasi in contemporanea, colta da un risentimento folle, si rivolse alla già menzionata agenzia matrimoniale, che nell’arco di una settimana le propose come marito tale Ignazio Chiambaretta; un quarantenne assai ricco.
   Entrata in frenesia per la posizione sociale dell’uomo, durante una nevrastenica telefonata a Claudio Bossino, suo amico fraterno e confidente da sempre, Teresa definì Paolo inaffidabile e non abbastanza innamorato.  Tanto d’aver chiuso con lui ogni rapporto. L’interpellato, conoscendola e sapendo che non era la prima volta che i due arrivavano ai ferri corti, lasciò cadere ogni cosa senza fare commenti.
   Venuto a conoscenza del Chiambaretta e dell’agenzia matrimoniale, in una successiva telefonata, Claudio le inventò tutte per convincere l’amica a desistere dal portare a termine quel ripugnante disegno…sposare cioè un’altro solo per una ripicca verso Paolo. E quando volle insistere, definendo Ignazio un emerito sconosciuto, mai visto prima, lei troncò ogni altra sua possibile interferenza dicendogli: "A me basta che il tipo non abbia difetti fisici altamente invalidanti, e che non sia tutto scemo. Per il resto mi accontenterò!".
   Nessuna persona con la testa sul collo, in quella particolare situazione avrebbe dato torto a Claudio; anche perché Chiambaretta a differenza di Teresa era un uomo che madre natura aveva scolpito con la zappa: tanto sapeva di grossura ogni suo fare ed ogni suo dire. Come se non bastasse, viveva solo ed esclusivamente per fare quattrini senza badare al come...basti pensare che per soldi avrebbe venduto l’anima a Belzebù. Tutte queste marcate differenze, invece, non impensierirono Teresa. Così la coppia decisa a tavolino, dopo le incombenze cartacee, convolò a nozze...celebrate in gran segreto. Il nido d’amore era alle porte di Torino: una villa posizionata sulla riva occidentale di un laghetto lungo un centinaio di metri e largo non più di cinquanta.
   Si trattava di una costruzione passata nelle mani d'Ignazio dopo una lunga causa civile. Da lui intentata e vinta per la non estinzione di un vecchio prestito che andava ben oltre l'usura. Concesso al proprietario...un suo vecchio zio da parte di padre. Una costruzione a pianta larga. In cemento armato e mattoni rossi. Circondata da un parco molto grande e da un invalicabile muro di cinta lungo l’intera proprietà non toccata dall’acqua. Un gioiello dell’architettura moderna: secondo la stima degli agenti immobiliari che ,in diverse occasioni, ne avevano tentato l’acquisto.
   Rimasta a lungo disabitata, dopo lo sfratto voluto da Ignazio a conclusione della vittoriosa sentenza, la bella dimora andava ripulita da cima a fondo; a cominciare dal parco: reso impraticabile dall’erba alta e dalle male piante. Ed avendola scelta come residenza definitiva, a matrimonio appena celebrato entrambi gli sposi diedero quindi mano ad una lodevole opera di repulisti.
   In questo senso, l’impegno dei due fu costante e si protrasse per svariati giorni. La loro fatica – con le mani spesso piagata dalle spine – a volte andò oltre i limiti della resistenza fisica. Ma ne valse la pena, perché a cose fatte gli alberi d’alto fusto svettarono in cielo finalmente liberi da rovi e sterpaglie. Il vasto prato all’inglese, intorno alla lussuosa dimora, diventò un soffice tappeto verde. La siepe che mascherava tutto il muro perimetrale dalla parte interna, rifiorita a nuovo sembrava un'immensa ghirlanda. Mentre in casa ogni angolo risplendeva a specchio.
   In quel periodo, un po' per la bravura di Teresa nel non manifestare i suoi tormenti, un po' per il sorriso beffardo d’Ignazio...stampato sempre sulle labbra, furono in molti a pensare che quella fosse la dimora di una coppia felice e senza problemi di natura economica. Invece era soltanto facciata, perché al suo interno non attecchì mai la pianta della felicità. Prova ne era l fatto che i due novelli sposi – escludendo qualche saltuario diritto di talamo preteso dal marito, e concesso a corpo morto dalla moglie – avevano esaurito ogni possibile argomento di discussione fin dalle prima ore passate sotto lo stesso tetto. E poco mancava che a tre mesi scarsi dalle nozze, che per comunicare tra loro, ricorressero ai segnali di fumo come i pellirosse. A peggiorare di molto il carattere...visto che l'uomo sotto questo profilo aveva già toccato il fondo da lungo tempo, era stata proprio la donna.
   Sposatasi a metà di gennaio, già sul finire della primavera seguente, infatti, a Teresa non le rimaneva più nulla della sua sfrenata voglia di godersi la vita. In pochissimo tempo…a ventisei anni ancora da compiere, era diventata introversa e taciturna persino con se stessa. Ormai, per non trovarsi a dover rispondere a qualche curiosa domanda su quella specie di sfinge...che era poi suo marito, lei evitava sistematicamente tutte le sue vecchie conoscenze.
   Durante questo suo volontario isolamento solo con Claudio continuò a mantenere stretti rapporti, anche se telefonici. Perciò quando la solitudine le pesava più del solito, e sentiva il bisogno di sfogarsi con qualcuno, si attaccava alla cornetta senza nessuna pietà per le piccole o grandi frette dell’amico, che rassegnato la stava ad ascoltare senza mai contraddirla.
   Nel corso di questi asfissianti dialoghi a distanza parlava sempre lei: raccontando dell’ottusità del consorte e della sua taccagneria, diventata ormai insopportabile. Saltuariamente, narrava senza ritegno le violenze sessuali costretta a subire le volte in cui Ignazio, forte dei diritti acquisiti col matrimonio, le saltava addosso. Allora diventava isterica e con le lacrime agli occhi, trattenute a stento, minacciava querele contro la fatale agenzia matrimoniale; secondo lei colpevole di averla ingannata a suon di bugie sulla signorilità del futuro marito.
   Di solito questo tipo di telefonate Teresa le chiudeva con le dovute scuse per il disturbo...che Claudio incassava sempre più in ansia per la tenuta mentale dell’amica. Diversamente, con ansia quasi fraterna, si preparava a sorbire resto, fatto di ragguagli sull’unica cosa in cui eccelleva Ignazio, in altre parole far soldi a palate con lo strozzinaggio, dietro un’attività di facciata che risultava essere: forniture a domicilio di pezzi di ricambio per elettrodomestici con mastro riparatore a carico…ovviamente sottopagato.
   Nulla sapendo delle diversità che ammorbavano la coppia, il pentito Paolo, passeggiando avanti e indietro lungo la sponda orientale di quella piccola conca d’acqua, dava nel mentre il fegato in pasto alla gelosia. Osservato da una scaltra Teresa, che lo ignora ad arte, con quella muta presenza egli portava avanti ciò che a tutti gli effetti era diventato un assedio d’amore senza limiti di tempo.
   Lei continuava ad amarlo in gran segreto, anche se nel fingere indifferenza era abilissima nel nascondere il suo stato d’animo. Lo sapeva col cuore a fette e con la mente in un macinacaffè, ma volendo assaporare per intero la sua vendetta, ad ogni suo apparire gli sbatteva le persiane in faccia.
   Paolo non intendeva mollare! Anzi, col chiaro di luna e col bel tempo, a bordo di una piccola barca sulla quale sarebbe stato difficile finanche immaginarlo, perché afflitto da idrofobia, remava come un forsennato fino all’altra sponda. Da lì, deciso a far valere le ragioni del cuore e senza curarsi del fatto che Ignazio potesse vederlo mentre gli violava la proprietà...con chissà quali conseguenze, la tentava con dei magnifici mazzi di fiori che andava a depositare sul davanzale della finestra dalla quale lei era l’unica ad affacciarsi. Altre volte – dopo essersi reso conto con enorme soddisfazione che i due coniugi dormivano in camere separate – lo faceva più sfacciatamente con dei focosi bigliettini al posto dei fiori.
   Teresa era però dell’avviso che Paolo non meritasse sconti di pena, e quindi senza assecondarne le brame continuò a sbattergli le imposte sul muso: vederlo dannato…dopo che per eccessiva sicurezza l’aveva gettata nelle braccia di Ignazio, rappresentava la parte più gustosa della sua rivalsa e voleva gustarsela fino in fondo.
   Sadica dunque! Ma anche masochista, perché col marito escluso da tutte le sue fantasie erotiche, con quella finestra tenuta chiusa, per dispetto, anche lei pagava un prezzo al limite della sopportazione. Ciò avveniva proprio nelle notti di luna, con Paolo relegato all’inferno dal suo ostracismo ma tanto vicino da sentirne il respiro aldilà dei vetri. Col marito immerso in un sonno a prova di cannonate, infatti, nei momenti di fregola, invece di aprire la finestra e darsi completamene a chi aveva già dato prova di saperla prendere, per soddisfare le sue voglie  si affidava ad una convulsa e sbrigativa autogestione del corpo...che per quanto liberatoria non spegneva mai tutto l’ardore che induriva la parte bassa del suo ventre. Perciò, mentre da un lato sacrificava Paolo sull’altare della vendetta, dall’altro ne beveva il sangue...con la luna – conclamata spiona di tutti gli amanti – sempre più curiosa di vedere come sarebbe andata a finire.
   Chiambaretta, che costituiva la negatività dell’intera vicenda, non conosceva il passato di Teresa e non gliene importava. Non aveva mai visto Paolo. Non sapeva della sua invadente presenza nel giardino di casa e non aveva neanche la più pallida idea dell’infelicità della moglie. Lui di giorno moltiplicava delle lire e di notte dormiva. Dormiva e russava. E se sognava contava soldi anche nel sonno, a giudicare dall’aspetto goduto del viso. A quanti lo denigravano per la sua cupidigia andava ripetendo: "L’autentico valore di un uomo è sancito dalla quantità di denaro che ha saputo accumulare nel tempo!".
   Una volta, tanto per restare in tema, a quel suo dipendente mal pagato che gli aveva chiesto un anticipo sul salario...il poveretto doveva far fronte a delle costose cure mediche per la madre, afflitta da una grave infezione, l’avaro Ignazio rispose così: "Se è scritto che la genitrice deve morire...che se ne vada pure all'altro mondo! A che serve buttar via del denaro che oltretutto è ancora mio?" E quando l’ammalata morì, probabilmente per inadeguate cure, lui pensò subito a quanto, da lì in poi, avrebbe risparmiato in assegni familiari non più dovuti.
   L’uomo, per quel che valeva e per quel che menava vanto, poteva dirsi una macchina da soldi a tutti gli effetti. Oltre all’usura, che costituiva il moltiplicatore per cento dei suoi averi, i mirati investimenti nel commercio, nell’edilizia privata, nel campo finanziario e nell’industria, sembravano pilotati dalla dea bendata...non aveva mai registrato un affare in perdita! A dettare certe sue deliranti teorie sul risparmio, era la taccagneria. Per questo non fumava. Non beveva e non spendeva una lira in vizi. E per quanto la sua quotazione in banca salisse vertiginosamente, la stima che ne otteneva in quanto uomo, precipitava sempre più in basso...verso il baratro di una scialba esistenza. Unico divertimento della sua vita era raccogliere pietruzze colorate sulla spiaggia di Borghetto Santo Spirito, una volta ogni tre anni; quando vi si recava obbligato dagli acciacchi reumatici.
   Va detto che Ignazio – quasi a dare una ulteriore versione della fiaba "La Bella e la Bestia" – sposò Teresa Altavilla dietro la promessa di farla vivere da gran signora. La sua taccagneria però era tale che dopo le nozze, per paura di eventuali creste sulla spesa di tutti i giorni, parte della moglie, fece sua l’incombenza. Mettendo così malcapitata a stecchetto e negandogli persino i soldi degli assorbenti: da lui ritenuti una diavoleria della modernità...con tutti i pannolini che si possono recuperare in ogni casa.
   Abituata fin dalla più tenera età a vedere appagato ogni suo desiderio, lei ora sopportava con stoicismo il ruolo di moglie-vetrina; facendosene anche una colpa. All’inizio si era ribellata con forza, ma la rottura di alcuni pezzi del servizio di Limoges – regalatole dalla nonna materna per le nozze – scagliati contro il muro nel tentativo di colpire il consorte, non aveva migliorato affatto la situazione. Avrebbe potuto porre fine a tutto aprendo quella finestra e buttandosi tra le braccia di chi veramente l’amava, questo era scontato! Ma un maiuscolo orgoglio glielo impediva. Perciò, immaginando la disperazione di Paolo, ormai si consolava al pensiero del "More Sansone con tutti i Filistei!".
   Qualche residua voglia di ribellione le ronzava in testa, di notte, più o meno ogni quindici giorni, quando il rude Ignazio le saltava addosso per incassare quei diritti di marito che Teresa…non sapendo come ovviare, pagava ad occhi chiusi e con la mente altrove.
   Questa faticosa ginnastica del pensiero però non la ripagava sufficientemente. Solo in rarissime occasioni, infatti, era riuscita a trarre un certo piacere da tale pratica. Per il resto, il soffocante peso del marito non le permetteva di sconfinare dalla nauseante realtà e quindi aspettava immobile la fine dell’incubo.
   Ad Ignazio la staticità della moglie durante i rapporti sessuali non dava pensiero, né riteneva che un suo coinvolgimento rendesse la cosa più piacevole. Per lui si trattava di riscuotere un credito riconosciuto dalla debitrice e quindi incassava secondo i dettami dell’usura. Incassava e metteva da parte!
   – Sono stato bravo? – chiese una delle rarissime volte in cui la moglie si fece prendere dai sensi, convinto di aver fatto miracoli.
   – Certo, dopo di te la morte! – fu la secca risposta che ottenne.
   In seguito, ad ogni suo tentativo d'abbordaggio lei lo fece andare in bianco; dichiarandosi di volta in volta o sofferente di una forte emicrania a grappolo...ereditata dalla madre, o sotto attacco di dolorosissime fitte intercostali che le impedivano qualsiasi movimento...facendogli così capire che quel matrimonio era diventato un disastro.
   Dal canto suo Ignazio non si arrese e continuò a fare soldi: convinto che l’entità del capitale accumulato avrebbe indotto Teresa miti consigli; facendola diventare una donna servizievole. Nell’attesa usciva il mattino e rincasava a sera fatta, quando lei era già a letto nella sua camera. Una frugale cena a base di cibi precotti perché la moglie non cucinava più per il troppo caldo, e subito a letto...a pianificare, sulla carta, gli incassi del giorno dopo.
   La notte del dodici agosto del Millenovecentocinquanta, col cuscino intriso di sudore, Teresa si alzò dal letto e si portò alla finestra, spalancandola. All’esterno l’aria era più fresca ed ebbe subito modo di goderne, mentre con gli occhi cercava nel parco la sagoma di Paolo. Con Ignazio sempre tra i piedi non aveva avuto modo d’incrociarne lo sguardo per tutta la serata e adesso, per una questione tutta sua...che spaziava tra l’amore e l’odio, doveva vederlo. Sapeva che lui era lì a spiarla in uno di quei soliti posti in cui si acquattava per non farsi scoprire dal marito, su questo ci avrebbe scommesso l’anima perché quella era una presenza che sentiva a pelle.   
   Non riuscendo ad individuarne neppure l’ombra, dopo una prolungata quanto capillare ricerca in tutti i possibili nascondigli, Teresa finì col pensare che Paolo si mantenesse nell’ombra per negarle la soddisfazione della scoperta...come se stessero giocando a rimpiattino. Ritenendosi però osservata, decise di rendergli la pariglia seguendo quel vecchio adagio secondo cui in amore il vedere e non toccare provoca sempre fastidiosi pruriti. In altre parole prima di tornarsene a letto si denudò completamente, in piena luce, per mettersi meglio in mostra e farlo morire di desiderio.
   Ed in effetti Paolo era a pochi passi dalla finestra, dietro una fitta siepe di robinia, con ventiquattro rose rosse in mano perché quel giorno lei compiva gli anni. Da quella favorevole posizione…anche se conosceva nei minimi dettagli le anatomiche forme dell’improvvisata spogliarellista…avendole già ammirate e palpeggiate almeno mille volte durante la loro movimentata relazione, se le gustò di nuovo con immenso piacere…fino a raggiungere quasi l’orgasmo. Dando poi allo stuzzicante spettacolo l’unico significato possibile: una resa senza riserve. In buona sostanza per lui quello era un segnale di pace, accompagnato da un piacevolissimo invito da cogliere al volo. Convinto di ciò, in un lampo scavalcò il davanzale e con passo felino s’intrufolò nella stanza in penombra.
    Distesa nuovamente sul letto, senz’alcun velo, Teresa, fingendo di dormire, lasciò che arrivasse a distanza di respiro. Dopo di che, soffocando la voglia di darsi all’uomo che ancora segretamente amava, ma che per la sua indole vendicativa non riusciva a perdonare, dopo essersi coperta con un lenzuolo per non farsi trovare nuda dal marito, quasi divertita gridò con quanto fiato aveva in gola:
   – Al ladro! Al Ladro!
    Se dormiente, quello era il solo modo per svegliare di soprassalto Ignazio e farlo scendere precipitosamente dal letto. E così fu, infatti. Armato di un nodoso bastone e senza un minimo di precauzione, correndo come un forsennato egli perlustrò da cima a fondo la casa al grido di: “Esci fuori, bastardo! E lascia stare la mia roba al suo posto, se non vuoi fare una brutta fine!”.
   Ovviamente dell’ipotetico intruso egli non trovò traccia…anche perché al primo urlo della moglie Paolo se l’era data a gambe levate, andandosi poi a nascondere dietro il tronco di un grosso albero a poca distanza dalla casa; da dove non ebbe difficoltà nell’osservare quanto in essa capitava.
   – Se soffri d’insonnia vai a farti curare! – gridò Ignazio a Teresa, chiusa ormai a chiave nella sua stanza.
   – Io ho sentito rumori! Come di qualcuno che tentasse di entrare in camera mia! – si giustificò lei, sicura del fatto che Paolo fosse ormai al sicuro.
   – Invece qui non c’è nessuno! – Senza contare che con le mie amicizie vorrei proprio vederlo un ladro mettere le grinfie su quanto mi appartiene di diritto…per lui sarebbero cazzi acidi – gridò ancora Ignazio, gonfiandosi come un rospo per lo scampato pericolo, mentre se ne tornava a russare rumorosamente nella sua camera da letto; confinante con quella della moglie.
   Rimasta sola, Teresa si tolse la vestaglia che aveva indossato poco prima per evitare che il marito si facesse delle strane idee vedendola nuda, spense la luce e…col sorriso sulle labbra per il tiro mancino giocato a Paolo, si addormentò. Una mezz’oretta dopo, quando in quella parte del corpo lungamente tenuta in letargo le carezze di una morbida mano si fecero sentire, ebbe un lieve sussultò. Senza neanche il bisogno di aprire gli occhi capì all’istante quel che stava accadendo nel suo letto. Alquanto felice, dopo tanto letargo avrebbe voluto sciogliersi e godere. Ma non ancora riappacificata col resto del mondo, per non tradirsi con dei movimenti derivati, si ricompose e finché ci riuscì finse di essere immersa nel sonno. Alla fine però dovette cedere e tremante come una foglia…senza dare nessun altro allarme, diede a Paolo la piena disponibilità del suo corpo.
   Due notti dopo, venendo meno alle sue abitudini, Ignazio fu svegliato da un piccolo rumore proveniente dalla stanza della moglie.
   – Sei di nuovo alle prese con qualche ladro…come l’altra sera? – le chiese, sfottente, alzando la voce e sbattendo con una ciabatta il muro divisorio delle due camere da letto.
  – Continua a dormire tranquillo…qui va tutto bene e nessuno tocca niente di tuo – gli rispose lei, con la consapevolezza che il triangolo Ignazio-Teresa-Paolo nasceva sotto buoni auspici.
   Come tutte le cose che nascono sotto una cattiva stella, la coppia IgnazioـTeresa non durò a lungo: divorziarono dopo cinque anni. Lei, pur mantenendo una relazione con Paolo per il resto della sua vita, non accettò mai di sposarlo: neanche in vecchiaia…quando lui l'avrebbe impalmata volentieri.

Casalborgone, agosto 1984

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Una colossale sbornia
 
   Ancorata a circa un miglio dalla costa e con gli acciai tirati a lucido, la portaerei statunitense Enola Gay – stesso nome del bombardiere B-29 che il 6 agosto del 1945 sganciò la prima bomba atomica su Hiroscima – mandava grigi bagliori che facevano accapponare la pelle: benché distante, infatti, riusciva lo stesso a mettere in evidenza la sua enorme stazza: rendendo appieno l'idea dei danni che avrebbe arrecato a degli eventuali nemici in caso di guerra. Alla sua destra – verso levante guardando il mare – a dispetto dell'ordinanza municipale che in quel periodo ne vietava la pratica, due motobarche, in sincrono, tentavano l'abbondanza pescando a strascico quasi sotto riva. Dalla parte opposta – cioè verso ponente – appena distinguibili per lo scarso contrasto cromatico rispetto all'azzurro chiaro del cielo, dei piccoli cirri, messi a cappello sull'isola Gallinara, davano ad intendere che almeno per l'immediato futuro non ci sarebbero stati cambiamenti climatici degni di rilievo, e che di conseguenza – considerata la non belligerante presenza della nave da combattimento – un qualsivoglia pericolo per quel tratto di riviera ligure andava cercato nel caldo appiccicaticcio che da diversi giorni, malgaro le reiterate minacce di pioggia, appesantiva il respiro a vecchi e bambini.
   Stava spuntando l'alba del 16 agosto 1976 ed io, dopo una scorpacciata di sesso durata l'intera notte ero lì: accovacciato su una delle tante sdraio messe in bell'ordine lungo l'arenile dei Bagni Margherita. Ero lì alle prese col sonno che mi girava intorno come mosca col miele, e che a tratti, infingardo più che mai, pur di accalappiarmi e catapultarmi tra le braccia di Morfeo, mi propinava dolci e concilianti visioni degne di un neonato dopo la poppata.
   Col fisico a pezzi per le troppe energie profuse sull'altare di Venere, io avrei dovuto lasciare che il sonno mi cogliesse e mi rigenerasse, ma ero su una delle spiagge più frequentate dello Stivale, e per non rimediare una figuraccia coi tanti vacanzieri che a breve avrebbero invaso quella striscia di sabbia, decisi di tenere gli occhi bene aperti.
   Intanto il mare accarezzava la battigia schiumando appena, mentre Alassio dormiva ancora di piombo. I pochi rumori udibili, inclusi quelli dei netturbini addetti alla pulizia delle strade, erano volutamente ridotti al minimo per non disturbare più di tanto chi amava far vita notturna. Sicché il lento schiudersi di una sgangherate persiane, col suo sia pur minimizzato cigolio, invece di un convinto ritorno alla quotidianità a me parve un assonnato sbadiglio al nuovo giorno.
   Quando le palpebre mi si appesantirono ulteriormente, per non cedere al sonno cominciai a contare i cirri addensati sulla già menzionata isoletta di cui…esattamente come facevo da bambino con le pecore. Poi, preso atto che il numero delle nuvolette era tanto striminzito da non richiedere un grande impegno mentale, riandai col pensiero a quanto mi era capitato la sera prima alla Festa dell'Unità organizzata dal Pci (Partito Comunista Italiano), dove tra un pistolotto politico e l'altro – ben pausati dagli oratori di turno – i cosiddetti "compagni" si divertivano ballando e mangiando costine di maiale alla brace. E qui la cosa andò molto meglio perché si trattava di così piccanti che, oltre a tenermi sveglio, finirono col tramutarmi in rosa il metallico colore dell'Enola Gay.
   Onde evitare affrettati giudizi di natura politica…visto che in quel periodo mi dichiaravo libero pensatore senza macchia e
senza paura, ci tengo a precisare che la mia presenza in quella specie di raduno annuale si doveva all'incontenibile voglia di fare quattro salti in compagnia, più che ad una quanto mai improbabile sudditanza di natura politica con la Sinistra…pur non essendo di Destra, ovviamente. Altro particolare da tenere in debito conto è che all'epoca il disinteresse delle donne verso la mia persona era totale, per cui il fuori programma con Marilyn, la bellissima straniera che avrebbe indotto in tentazione il più casto dei carmelitani scalzi, non era minimamente ipotecabile. Però con lei avevo trascorso una notte degna di essere menzionata nel Kama Sutra, e quindi nessuna meraviglia se al solo pensiero gongolavo ancora di piacere.
   E che non si pensi su qust'ultima affermazione che io fossi un tipo emozionabile in fatto di sesso: la mia esperienza al riguardo, sia pure di breve durata perché non avevo ancora compiuto trent'anni, vantava avventure galanti alla grossa…e con donne di tutte le età! Questo per dire che la rinnovata mia eccitazione di fronte alla nave da combattimento, col suo inverosimile colore rosa, non scaturiva da una semplice notte d'amore in quanto tale, bensì dai succulenti particolari di cui era pregna. Particolari così piccanti che anche in seguito, a distanza di lustri, il ricordo di alcuni "quadretti" mi davano un certo prurito. Ma vengo al sodo, sperando che Dio voglia benedire quella donna ovunque si trovo…non fosse altro che per il semplice fatto di aver reso felice un uomo: anche se per una sola notte.
   Io fui uno degli ultimi a giungere in quel sito fuori mano, a nord della Città, dove si erano dati convegno i nipotini di Stalin. Personalmente non conoscevo nessuno e non era stato invitato, ma tali circostanze non m'impedirono di entrare perché l'ingresso era gratuito e libero a tutti.
    La struttura – un grande capannone in cemento armato, a pianta aperta, utilizzata in precedenza come deposito di derrate alimentari – all'interno era suddivisa in più parti per meglio raggiungere gli obiettivi (non tutti gaudenti) della manifestazione. Separati da nastri sedie e tavolini infatti c'era l'angolo-bar: dove si servivano bibite e caffé; l'angolo-ristoro: con già sui tavoli i primi piatti di carne arrostita; l'angolo-dibattiti: posto in cui degli improvvisati oratori si parlavano addosso nel tentativo di sanare il mondo a colpi di falce e martello; e per finire, come ultima istanza, l'angolo per le danze: dove un'orchestrina di miti pretese intratteneva qualche sparuta coppia di ballerini con delle canzonette di chiara marca nazionalpopolare…tanto da farmi credere che il Pci (in vena di cambiamenti) avesse già rottamato la sua sciocca internazionalità. Scelta di campo, quest'ultima, aspramente criticata da chi come me era dell'idea che per combattere davvero la povertà bisogna cominciare dal proprio paese…senza andare a cercarla ai confini del mondo.
   Appena entrato, io mi tenni in disparte per alcuni minuti, osservando uomini e cose. Poi – avendo già cenato – presi la via del bar, dove al posto del fresco chinotto ordinato al giovane volontario del Partito con fascia rossa intorno al braccio, in veste di barista, ricevetti un'aranciata a bagnomaria perché il frigorifero non dava segnali di vita. E fu lì che una svampita ragazzotta, con cappellino pubblicitario in testa, mi chiese l'autografo. Sì…chiese l'autografo proprio a me, tirandomi per la manica della maglietta!
   Conscio della mia identità…del tutto priva di risonanza oltre una ristrettissima cerchia di amici e conoscenti, superata l'iniziale sorpresa cercai di accantonare l'inaccettabile richiesta facendo lo gnorri. Ma per quanto mi diede ad intendere, avendomi scambiato per un attore da fotoromanzi la svampita non si dava per vinta e non mollò la presa, finché per levarmela dai piedi non mi vidi costretto a fare una specie di firma illeggibile – sulla visiera del copricapo, a mo' di firma.
   La trovata, alquanto fuori delle righe e quindi non confacente col mio stile di vita, come per incanto sortì l'effetto di catapultarmi al centro dell'attenzione generale: circondato e spintonato da giovanissimi a caccia del mio scarabocchio, o per farsi fotografare al mio fianco. E siccome la notorietà riesce quasi sempre a dare qualche vantaggio, specialmente se decretata a furor di popolo, senza tenere che avrebbero potuto smascherarmi da un momento all'altro – pericolo che ci stava tutto – con una faccia da schiaffi che non immaginavo affatto di avere finsi di essere esattamente quello che loro pensavano che io fossi. In altre parole, osannato e guardato con grande entusiasmo dalla stupidità umana, io mi prestai anima e corpo a quella che ormai era diventata un vera presa in giro.
   Indossando i panni del divo – digeriti peraltro senza eccessivi mal di stomaco – firmai a tutto spiano falsi autografi, facendomi anche fotografare con vergognosa pomposità al fianco dei più giovani. Poi venne la volta dei più saputelli e uno di loro, sicuro di sbancare al quiz milionario di Mike Buongiorno su Canale 5, mi chiese il suo indirizzo…come se io, in quanto attore, avessi avuto l'obbligo di conoscerlo. Ovviamente tale richiesta, come tante altre dello stesso tenore, non mi diedero pensiero perché ormai recitavo ed inventavo a comando: tanto che se qualcuno me lo avesse chiesto, dal mio cappello a cilindro avrei tirato fuori anche il punto esatto in cui cercare il tesoro dell'Isola, raccontato da Stevenson.
   Solo con un ragazzo lento di parola e di gesti l'incanto si ruppe, facendomi rinsavire di colpo! Costui era interessato alla parte del balbuziente in una commedia che il prete del suo paese – in provincia di Cuneo – stava allestendo nel teatrino della parrocchia per la Sagra delle Castagne. Il poverino, dandomi numero di telefono e gettone, mi supplicò di telefonare all'improvvisato regista affinché, prima di decidere, lo sottoponesse a provino per valutarne la bravura. E per convincermi che mai ruolo avrebbe avuto migliore interprete, egli si mise a tartagliare a ruota libera: declamando in discorso dello shakespeariano Marco Antonio alla morte di Cesare. La simpatia del giovane era indubbia, ed io di sicuro mi sarei inventato qualcosa di serio per sostenere quella candidatura, se una maligna coetanea non lo avesse deriso e non lo avesse fatto scappare, dicendogli che i suoi preziosismi vocali erano del tutto naturali e non dovute a capacità recitative.
   A farsa finita un gruppetto di appetitose fanciulle, tra le quali Marilyn, continuarono a ruotarmi intorno senza nulla chiedere. Ammiccando e alludendo, tutte, ognuna alla sua maniera, tentarono di scatenare in me quella famosa voglia…cosa piacevolissima perché ad un certo punto non mi rimase che l'imbarazzo della scelta.
   Finiti i predicozzi politici, l'orchestra, dando prova di una inimmaginabile varietà di repertorio, cominciò a suonare il primo rock and roll della serata.. Marilyn, che si trovava a pochi passi da me e si era accorta del mio interesse nei suoi confronti, si avvicinò ancora di più e guardandomi fisso negli occhi – senza aspettare che fossi io a tentare l'approccio – mi chiese se conoscevo quel genere di ballo e se avevo voglia di farla ballare.
   Ovviamente accettai, anche perché avevo a poco finito un corso di danza moderna…con un particolare profitto proprio nelle acrobatiche figure del rock, e quindi volevo vedere come me la sarei cavata di fronte a degli sconosciuti. Inoltre, per quel periodo di magra con il gentil sesso da copertina accennato pocanzi, quella era un pezzo d'alta classifica e perciò non intendevo, lasciarmi sfuggire una simile occasione. Se poi aggiungo che lei, con eloquenti messaggi visivi continuava a farmi capire che ci stava, il gioco per me era fatto.  Ad ogni buon conto, insieme formammo una coppia spettacolare. Io ero molto bravo nei lanci, lei una perfetta ballerina col ritmo nel sangue e, com'ebbe a dirmi in seguito, col corpo plasmato dalla ginnastica artistica: praticata in giovanissima età a livelli agonistici. Sta di fatto che alle nostre prime funamboliche figure gli altri smisero di ballare e ci fecero cerchio, applaudendoci ripetutamente. Noi però oltre al corpo ci mettemmo pure l'anima, e gratificati dall'inatteso successo decidemmo di cimentarci anche in qualche ballo lento.
   Quel mattino, sulla spiaggia di Alassio, per sfuggire al sonno cominciai col pensare a ciò che accadde nel corso di un tango figurato, allorché Marilyn – per sopperire al suo stentato italiano e farmi meglio capire quello che le passava per la testa – diede favella al corpo. Fu cioè tanto abile, nel far sì che certe     sue parti aderissero contro le equivalenti mie, da mandarmi spesso in brodo di giuggiole. Robe da non credere!
   Eppure – anche se navigava nel mio stesso mare – incurante che occhi indiscreti la guardassero e ne intuissero la sua imbarazzante fregola ad ogni strusciar di cosce, in quella femmina a cinque stelle c'era qualcosa che non quadrava. Senza una plausibile ragione, infatti, lei alterna quel suo più che dimostrato attaccamento alla mia persona con momenti di gelido distacco. Un cambiar di umore che mi dava pensiero sia perché ormai avevo il sangue nelle vene prossimo al bollore, sia perché metteva in dubbio i miei intuibili piani sul dopo ballo.
   Questo accadeva quando si girava a guardare nell'angolo meno illuminato del locale, appena dopo la porta d'ingresso, dove diverse persone stazionavano in piedi per proprio conto. Allora la gioiosa Marilyn diventava triste e si chiudeva nei suoi pensieri, evitando ogni contatto fisico con chiunque.
   Io non sapevo cosa o chi guardasse, né di avere titolo per poterglielo chiedere. Percepivo, però, la presenza di un qualche accidenti capace di provocare in lei quella fastidiosa repulsione verso tutto ciò che si muoveva, e che a me dava molto sui nervi: anche se una vocina, in fondo al cuore, di tanto in tanto mi tranquillizzava, dicendomi che lei avrebbe finito con l'azzerare in un sol botto il mio credito con le donne di un certo impatto visivo…alla faccia di quelle quattro racchie di cui madre natura si era servita per farmi fare pratica di sesso nell'ultimo anno. Sì, avete capito bene perché il sottoscritto, da un anno a quella parte, aveva solo fatto sesso meccanico! Con Marilyn, invece, avrei finalmente potuto far l'amore alla grande. Specialmente in considerazione del fatto che assomigliava in maniera impressionante a Jane Fonda: la donna dei miei sogni.
   Allo scoccare della mezzanotte, sulle dure note di Bandiera Rossa – inno ufficiale del Pci – da un microfono qualcuno invitò i non addetti ai lavori ad uscire dal locale in quanto la festa era finita. L'orchestrina, finito di suonare, richiuse nelle custodie gli strumenti. Le luci in eccesso furono tutte spente. I militanti del Partito, addetti al servizio d'ordine, cominciarono a fare le pulizie di buona lena.
   Ad andarsene via subito, senza farselo ripetere, furono le persone di una certa età…specialmente quelle a fede comunista. I più giovani, al contrario, temporeggiavano per allungare ulteriormente la serata: come spesso capitava in simili circostanze.
   Anche le coppiette di nuovo stampo, quelle formatesi tra un ballo e l'altro, nicchiavano. Per queste però si trattava di perfezionare accordi fin lì abbozzati, e quindi il loro perdere tempo non era altro che un fitto e sussurrato parlottio necessario a chiarirsi meglio.
   Le coppie nate senza troppa convinzione invece si sciolsero subito, come burro in padella, mentre le altre, quelle che avevano già raggiunto in pizzico d'intesa, irrobustivano le loro radici con più sostanziose promesse. Lo stesso dicasi di quei ragazzi e di quelle ragazze che nel corso della serata si erano lasciati e ripigliati tra loro in continuazione, e che all'ultimo minuto cercavano i migliori accoppiamenti possibili per andare oltre la notte. Ma c'erano anche delle ragazze scompagnate, con dei ragazzi speranzosi che le circuivano.
   Per quanto mi riguardava, preso atto che Marilyn, in una delle sue glaciali parentesi mi aveva quasi scaricato, ero indeciso se andarmene in solitudine o indugiare qualche minuto ancora. Lei d'altro canto era lì che parlottava con tre persone sulla quarantina, nell'angolo più buio del locale.
   Ad un certo punto, non volendo rischiare previsioni sull'immediato futuro tra me e la sensuale straniera, concentrai l'attenzione su degli intraprendenti maschietti proiettati alla conquista delle ultime ragazze ancora disponibili. Alcuni di loro, alquanto inesperti in fatto di approcci amorosi, senza nemmeno l'ombra di un normale impegno, al primo sorriso davano già per scontato il più intimo dei traguardi…tralasciando ogni possibile abbaglio. Perciò mentre i novelli proci scoccavano dardi verso i cuori delle moderne penelopi, queste, ben sapendo quale mangime beccavano i "polli", rispolveravano tele di antica memoria per non capitolare senza determinate garanzie. A dispetto dell'ora tarda e della fretta altrui, si ebbero quindi discorsi nuovi. Prolungabili all'infinito. Dove chi non aveva assi nella manica improvvisava aspettando il miracolo, col rischio di essere buttato fuori da chi lavorava per lasciare in ordine la struttura.
   Curioso di vedere quali risultati sarebbero sortiti da quella roulette delle coppie scoppiate, ma senza perdere di vista Marilyn, cercai la migliore postazione possibile per ascoltare senza dare nell'occhio qualche fanfaronata amorosa. Quella giusta me la indicò l'intuito…affidabile come sempre. Infatti, i fuochi d'artificio si fecero sentire subito.
   Ad accendere le micce cominciò un bell'imbusto seduto alle mie spalle. Egli andava raccontando di una rarissima quanto bella collezione di conchiglie marine provenienti da ogni parte del mondo, e vantandone il possesso ne consigliava la visione alla momentanea compagna. Il damerino però non ebbe fortuna perché la ragazza, oltre a conoscere il trucco della collezione di farfalle, si dimostrò delusa dalla banale trovata e lo mollò all'istante: senza prova d'appello.
   Sentite quest'altra! Un biondino tutto pepe, seduto al mio fianco, tra le altre stupidaggini dette ai suoi amici che tentavano l'abbordaggio di una spregiudicata ragazza…in mezzo a loro per caso, ad un certo punto asserì d'essere un diretto discendente di Giacomo Casanova. Calcando la mano, sostenne quindi che a lui, come eredità, era toccato tutto il saper fare di alcova del grande amatore. E gli andò bene perché fu premiato: dopo qualche minuto infatti lo vidi andarsene verso un sicuro successo: con la sua mantide sotto braccio.
   Quella sera ne sentii di tutte le salse, riconoscendo infine alle donne il pregio di non perdere tempo in chiacchiere, quando il corteggiatore di turno è di loro gradimento. Un particolare plauso inoltre lo meritano nel momento in cui, per appagare lo stupido orgoglio del maschio tentatore si fingono conquistate…anche quando la barra del timone è saldamente nelle loro mani. Sarà perciò sempre la donna a decidere con quale pretendente accompagnarsi, qualora questi siano in tanti: checché se ne dica! Come non si dovrebbe mai affermare che in amore manchi d'iniziativa, perché alla bisogna…se coinvolta emotivamente, ne tirerà fuori tanta da sembrare che ne possegga il monopolio.
   Volendo dare una personalissima testimonianza su quanto appena espresso, ricordo che una volta, all'ombra di una quercia; durante una gita in montagna tra liceali, una maliziosa studentessa menò vanto senza ritegno di farsela con due amanti col doppio della sua età. Scopo della scandalosa affermazione era quello d'infondere coraggio al timido compagno di banco – suo ambito boccone e mio carissimo amico – col quale si era appartata in quel momento. Avvenne che il timoroso si accalorò e per lui non ci fu scampo…comportandosi da merlo si fece mettere il sale sulla cosa: tanto da impalmarla prim'ancora che entrambi completassero gli studi. In seguito si venne a sapere che il giorno della gita, all'ombra di quella quercia, la volpona era del tutto illibata. Questo per dire che nelle storie di sesso l'ultima parola è delle donne. Certi sciupa femmine da strapazzo, perciò, bene farebbero a riflettere prima di lucidare a specchio il loro "irresistibile fascino", perché quando una donna non vuole non c'è attrattiva che tenga…e darsi arie in tal senso oltre a rendersi ridicoli con chi meglio conosce la subdola natura delle figlie di chi mangiò la prima mela, facendoci perdere il paradiso in terra, si collocano su piedistalli di creta facilmente disgregabili per effetto delle loro stesse bave.
   Sul mio immediato futuro, invece non avrei saputo cosa dire. Cotto a fuoco lento dalla voglia di possedere Marilyn, e col cuore che minacciava scompensi, la controllavo da lontano e mi sentivo come un rapace con le ali tarpate: in pratica come un falco debilitato dalla fame che, adocchiata la quaglia, invece di ghermirla in picchiata la inseguiva saltellando goffamente nell'erba alta. In altre parole, Marilyn era per me come l'odore del cibo per l'affamato…che svanì quando lei se ne andò senza neanche degnarmi di un saluto.
   Giusto il tempo di tacitare l'orgoglio del maschio deluso – consolandomi al pensiero che di sicuro avrei avuto tantissime altre occasioni per potermi rifare – ed anche io presi la via del ritorno verso la Pensione del Golfo...infimo posto appena fuori dal Budello di Alassio, dove da quattro giorni pernottavo a prezzi economici.
   Lungo la malridotta e poco illuminata strada che portava alla Città, senza una ragione logica cominciai a fischiettare. E sì che se di cosette da pensare, sulle incongruenze amorose tra uomini e donne, ne avrei avuto abbastanza...a cominciare dal più che promettente inizio di serata con Marilyn...per poi finire  così...com’era finita! Il che, in parole povere, per me poteva solo voler dire che dopo l'imbarazzo della scelta – di vecchia memoria – in quanto a belle gnocche ero di nuovo piombato nel periodo nero.
   Nei pressi della Via Aurelia, l'antica di romana memoria, al fischiettare aggiunsi la camminata a perditempo: scalciando tutti i sassolini che mi capitavano a tiro di scarpe. Però la visione di quella donna tanto ben disposta prima e riottosa dopo era diventata tridimensionale e difficilmente oscurabile. Ormai rivedevo la sua faccia in ogni angolo. Risentivo ad ogni passo il profumo del suo alito. Mi eccitavo al ricordo del suo sensuale sudore durante i balli acrobatici. Senza tralasciare la flessuosità del suo statuario corpo, i cui fremiti in fase di eccitazione mi erano rimasti incollati alle mani.
   Stavo cercando rabbiosamente di rimuovere dalla testa tutto questo e rimettermi l’animo in pace, quando all’improvviso fui scosso da un:
   – Hello boy?!
   Era lei. Seduta a cavalcioni sul basso muro che in quel tratto rasentava la strada, Marilyn era lì che se la rideva con le mani incrociate dietro la nuca.
   In quella posizione…con la testa inclinata all'indietro e con la luna d'agosto che la illuminava come una madonna, mi fu facile adocchiarle il seno, sodo e limitatamente prosperoso…e che ad ogni respiro minacciava di esplodere, fuoriuscendo dalla semi-sbottonata camicetta in finissima seta: a grandi fiori gialli e bianchi su sfondo nero. In aggiunta, dal turgore dei capezzoli, messo in evidenza dall'attillato capo d'abbigliamento, s'intuiva benissimo che non portava reggipetto...un segnale portafortuna nelle mie storie di sesso.
   Sicuro di avere ormai conquistato la sola femmina capace di prendermi a pesci in faccia senza giusta causa, e con la quasi certezza che tra donne e uomini, stando ai vangeli sessantottini ancora in grande spolvero, fosse guerra fredda anche sotto le lenzuola, mi calai stupidamente nei panni del vincitore in vena di rivalse.
   – Mi stavi aspettando, Marilyn? – le chiesi col piglio soddisfatto di chi dava già per scontata una risposta affermativa.
   – Non te, Frank! – fu lesta lei, scendendo dal muretto e riabbottonandosi la camicetta per impedirmi di sbirciare ancora oltre il tessuto.
   Mi stava aspettando: questo era evidente. Ma dal suo dire e dalle sue movenze era parimenti fuori discussione che, per punire la spocchia, non avrebbe portato ghirlande di fiori a chi s'illudeva di averla conquistata con tanta facilità…che poi ero io. Quindi per non indispettirla oltre, proprio nel momento in cui tutto sembrava dovesse filare secondo le mie aspettative, decisi di abbassare la cresta.
   A Marilyn il mio ridimensionamento piacque, e mi gratificò con un largo sorriso che faceva ben sperare. Poi, per un bel tratto, cominciò a camminare  con passi felpati, precedendomi di alcuni metri. All'improvviso, più leggera di una piuma, improvvisava figure di danza classica: dimostrandomi tutta la sua bravura e girandomi attorno come una trottola.
    Da parte mia sapevo di essere alla porta del Paradiso e di non averne ancora varcata la soglia, conseguentemente la seguivo muto per non indispettirla con qualche parola fuori quadro ma felice. Nello stesso tempo cercavo di escogitare un piano che mi consentisse di arrivare alla polpa dopo averne sentito il profumo, ovvero di poter disporre del suo corpo a piacimento…il mio pensiero dominante.
   Non trovando di meglio, dopo tante fantasticherie poco convincenti,le proposi una passeggiata a piedi nudi sulla spiaggia, con la possibilità di un bagno notturno: piacevole e tonificante se l'acqua non era eccessivamente fredda. L'idea la entusiasmò e mi disse di farle strada che mi avrebbe seguito.
   Passando per delle vie semibuie e poco frequentate, come aveva chiesto esplicitamente lei per non rischiare d'essere vista da certi suoi connazionali in vacanza proprio da quelle parti, la condussi in un posto assai lontano dalle case abitate, dove nessuno avrebbe potuto né vederci né sentirci. In una piccola insenatura bagnata da un mare pulitissimo. Deserta anche di giorno perché era troppo fuori mano e priva di qualsiasi spazio per posteggiare.
   C’eravamo appena levate le scarpe, quando una nuvola nera…con provenienza difficilmente spiegabile perché in tutta la zona non si contavano fabbriche inquinanti, ci privò del chiaro di luna. La sabbia sotto i nostri piedi si manteneva tiepida, come il l'acqua del mare. Di qualche alito di vento in bassa quota, per mitigare l'umidità che faceva dei miei vestiti una seconda pelle, neanche a parlarne. Tant'è che se non sarebbe stato per la straordinaria bellezza di Marilyn, e per la mia giovane età che mi permetteva qualsiasi tipo di eccesso…ovviamente in senso fisico, io quella sera avrei optato per un rapido rientro nella mia cameretta, dove potevo contare sull'utilizzo di un grande ventilatore.
   Al primo passo a piedi nudi lei perse l'equilibrio, rischiando di cadere ed io, istintivamente, per evitare che ciò accadesse le attanagliai con un braccio la vita libera da indumenti. Qui mi toccò ancora una volta fare i conti con la sua complessa personalità, perchè invece di ringraziarmi…come sarebbe stato auspicabile, Marilyn si divincolò indispettita per il contatto a pelle: facendomi riaffiorare tutti quei dubbi ritenuti da me superati dal muretto in poi. Il suo voler essere allegra ed imbronciata, riservata e provocante, sensuale e monaca di clausura, nello stesso momento, adesso cominciava ad infastidirmi davvero.
   Ero in procinto di dare un calcio ai sogni erotici cullati con tanta ansia fino a quel momento, quando tutto si aggiustò in mio favore ancora una volta. Sapete come? A lei era venuta voglia di fare la pipì e con estrema disinvoltura la fece in pia presenza, dietro una casetta in rovina a ridosso dell'Autostrada GenovaـVentimiglia.
   Anche se del tutto naturale, a me quel gesto sembrò subito forzatamente volgare. Infarinato di cultura bigotta per l'assidua presenza in casa paterna di un parente prete d'alto rango, il mio galateo infatti avrebbe preteso un minimo di riservatezza…era pur sempre una donna alla presenza di un uomo tutto sommato ancora estraneo! Pensai. Ma si trattò di una riflessione a vita corta perché, sentendone anch'io gli stimoli, cercai di farla insieme lei. Senza però riuscirci: la mia parte anatomica chiamata in causa era in un visibilissimo stato eccitativo e non ne volle assolutamente sapere. Diversamente abile fu ritenuta invece da Marilyn, che oltre a non stupirsi della mia esposizione…come avevo fatto io della sua vetrina, ne radiografò con occhi cupidi il vigore, prima di passare a certe vellutate carezze e poi a cose che non vi dico. Però che bocca avvolgente, amici miei…e quanta maestria!
   Poi un infinito numero di baci mozzafiato, posizioni corporee inventate al momento, mani che affondavano nella sabbia fino a sanguinare, morsi e graffi: tanto non sentivamo dolore. E quando infine ritenemmo di avere ormai dato fondo a tutto, da perfetta amica e complice di tutti gli amanti la Luna ci diede nuove energie…illuminando a giorno un anfratto dove un magnifico esemplare di pastore tedesco annusava una volpina tanto bassa da passargli sotto le zampe senza dover strisciare.
   Incuranti della nostra presenza, con i loro velocissimi testa-coda sembrava proprio che i due animali stessero giocando. Questo finché il maschio, con un poderoso quanto repentino assalto, non tentò di coprirla! A quel punto la cagnetta, intimidita dalla possente mole del compagno di gioco, e forse per non mettere in pericolo la sua incolumità fisica, si defilò dalla posizione favorevole alla monta. L'eccitatissimo cane-lupo però la voleva e con incredibile astuzia si acquattò sulle zampe quasi a voler minimizzare la propria altezza. L'ingegnosa trovata vanificò le paure della recalcitrante femminuccia, tanto che al secondo tentativo il pastore tedesco la penetrò con forza, traumatizzandola e facendola sprofondare di qualche centimetro nella sabbia a causa della forte spinta verso il basso. A congiungimento avvenuto il bestione risucchiò la soddisfatta cagnolina fin sotto la pancia: obbligandola a restare con le zampette posteriori sollevate a mezz'aria per tutto il tempo dell'accoppiamento.
   La lunga goduria dei due amici dell'uomo, inizialmente accompagnata solo dalla nostra curiosità e dal nostro stupore, non poteva non coinvolgerci. Successe, infatti, che da lì a poco anche io e Marilyn ricominciammo a fare sesso…ma con tanta rinnovata voglia che prima di noi si scollarono soddisfatti il cane e la cagnetta, andandosene poi ognuno per conto suo come due estranei.
    Dopo avermi scompigliato scherzosamente i capelli, e dopo un amorevole "Thenk jou!" seguito da una delicata carezza sulla guancia, poco prima che spuntasse l’alba, di ritorno verso il centro abitato lei volle andarsene per suo conto: senza essere seguita.
    Io assecondai la richiesta, accompagnandola con lo sguardo finché non la persi di vista. Poi, già euforico del mio per la bella notte a base di sesso a cinque stelle, dopo aver tracannato una discreta quantità bevande alcoliche diverse in un locali pubblico aperto fino all'alba, mi diressi un po' barcollante verso i Bagni Margherita.
   Il posto in cui mi trovavo quel lontano 16 agosto, era ormai un brulicare di corpi seminudi esposti al sole per la tintarella. Di piccoli bimbi con secchielli e palette che si divertivano a scavare la sabbia, fino a raggiungere l'acqua. Mentre altri un po' più grandicelli, tiravano calci alle creste delle onde prima che si disintegrassero sul bagnasciuga. A debita distanza, ma senza mai perdere di vista né i primi né i secondi, le rispettive madri controllavano ogni loro movimento, formando insieme un crocchio dedito al pettegolezzo. Per quanto potesse riguardarmi, invece, io ora non saprei dirvi se fu il chiasso dei bambini o il cicaleccio delle loro madri a svegliarmi. Buon per me però che questo accadde…perché mi ero addormentato come un ghiro!
    Rosso di vergogna per averlo fatto senza avvedermene, guardai l'orologio e mi resi conto di aver dormito soltanto tre ore. A conti fatti, invece di ridarmi vigore, il poco sonno mi aveva appesantito i movimenti e non sapevo come uscirne fuori. I due whischy bevuti di primo mattino in rapida successione al Bar dei Pescatori, avevano prodotto fumi che via via si erano insinuati nella mia mente: annebbiandola. Ormai non distinguevo una capra da un cavolo, e le persone mi sembravano masse in movimento. Diedi un'occhiata alla Enola Gay e ne intravidi a stento la sagoma, anche se non si era mossa di un metro.
   Mi stiracchiai, sbadigliando, e cercai di ridare un minimo di funzionalità alle idee. Avevo anche bisogno di riacquistare una soddisfacente forma fisica perché tra me e Marilyn c'era l'accordo che ci saremmo rivisti la notte seguente, allo stesso posto ed alla stessa ora, in riva al mare.
   Stavo quasi per riappisolarmi, incurante delle persone che avrebbero potuto vedermi e magari ridere di me, quand'ecco sei scarponi di vernice nera fermarsi a meno di un palmo dai miei piedi scalzi…rischiando di farne due pizze.
   Con la mente offuscata e gli occhi socchiusi a perdersi tra i granelli di sabbia, quelle furono le sole cose che al momento riuscii a distinguere. Perciò dopo aver realizzato che gli scarponi puntavano verso di me, salii con lo sguardo lungo i pantaloni che ne ricoprivano le tomaie, anch'essi neri: trattenuti in vita da bianche cinture dalle quali pendevano tre lunghissimi manganelli. Salendo ancora su con lo sguardo, vidi con mio sommo stupore le facce inferocite di tre marines degli Stati uniti in servizio di ronda, infatti portavano al braccio la fascia con la scritta: M. P. (Militar Police).
   In altri momenti, con divise del genere li avrei subito collegati alla portaerei ancorata al largo. Quella mattina mi ci vollero invece alcuni secondi, e dovetti strabuzzare diverse volte gli occhi prima di ritenerli appartenenti alla ciurma della Enola Gay. Ma cosa potevano volere da me? E perché quelle mutrie…come io fossi stato un loro dichiarato nemico? In fondo i rapporti tra l'Italia e gli Stati Uniti d'America – che io sapessi – navigavano in acque chete!
   Anche se non del tutto lucido, a quel punto mi fu però abbastanza chiaro che tra me e quei brutti ceffi ci fosse qualcosa di poco piacevole da chiarire. Sicuro di questo, e con la consapevolezza di aver subito una invasione di territorio senza un valido motivo, dopo essermi calato nei panni di Toro Seduto quando dissotterrava l'ascia di guerra, così…tanto per dimostrare che con me avrebbero trovato duro, aspettai che fossero loro a fare la prima mossa.
   Nell'attesa li studiai, cercando di capire fino a che punto era il caso di starmene buono e tranquillo. In alternativa, se provocatoriamente mi avessero pestato i piedi con quei loro enormi anfibi...dato che a quell'età per carattere e sventatezza non avrei fatto un passo indietro neanche di fronte ad un battaglione delle Fiamme Gialle di Padova in tenuta antisommossa, a quale dei tre, da una posizione a me favorevole, sarei saltato addosso più rapido di un felino.
   La ronda era al comando di un sergente con naso adunco e viso butterato. I suoi commilitoni, in quanto a fascino, stavano addirittura peggio. Per cui le dicerie sui Marines…alti, belli e fisicamente perfetti, andava a farsi sfottere perché quel trio era basso e grassottello.
   Fu il graduato a rompere gli indugi, puntandomi il dito pollice contro il naso.
   – Dove l'hai nascosta? – mi chiese.
   Il tono non era dei più amichevoli e sapeva tanto di sfida, segno evidente che aveva sottovalutato le mie potenzialità in fatto autodifesa, pensai. Perciò con occhio vigile, e con la certezza di non averlo mai stuzzicato, lo guardai come si guarda un cane che ci abbaia contro tanto per fare qualcosa.
   – Devi dire al sergente dove l'hai nascosta! – rincarò la dose il militare di sinistra
   Se non fosse stato di origini portoricane ma teutonico, con quel naso a peperone lo avrei detto fuoriuscito da una favola dei Fratelli Grimm. Per poco non era più largo che alto. E non riuscivo a capire come mai non lo avessero riformato alla visita di leva...non era per niente un tipo da sbarco. Ma dopo l'esperienza del Vietnam – finii col pensare – si vede che nei Marines non vanno più per il sottile.
   La maligna pensata mi piacque e mi fece anche supporre di avere acquistato, oltre ad una discreta dose di umorismo, anche un minimo di lucidità. Alquanto soddisfatto al pensiero, e con un sorriso simile a quello dei prestigiatori quando tirano fuori il coniglio dal cilindro, indicando la Enola Gay adagiata sulle placide acque del mar Ligure, dissi loro:
   – Eccola, signori, è tutta vostra!
   La battuta voleva soltanto alleggerire la tensione che si era venuta a creare tra noi quattro. Ma i tre americani, del tutto incapaci di accettare lo scherzo, non la trovarono divertente, e dopo essersi voltati a guardare in direzione della portaerei, convinti come allocchi di vedere quanto andavano me cercando, m'indirizzarono un'occhiataccia da brivido come segnale chiaro e forte che sarebbero passati a vie di fatto. Cosa che accadde allorché il graduato, senza neanche una parola, mi rifilò uno schiaffo...cioè la goccia che fece traboccare il vaso prima della mia terribile vendetta.
   Con la guancia sinistra rosso-fuoco e l'orecchio rintronato dalla sonorità del ceffone, mi alzai dalla sdraio in una manciata di secondi. L'ira che mi ribolliva dentro aveva fatto tabula rasa di tutti quei sentimenti a carattere pacifico che facevano di me un essere dall'indole docile...tant'è che davo già per cadaveri i miei antagonisti. E non ero esagerato: uno schiaffo è pur sempre uno schiaffo e non si digerisce come una tartina!
   Ostentando una sicurezza da campione di lotta greco-romana divaricai le gambe, giusto quanto bastava per assumere una convincente posizione di sfida...pronto a fulminarli con gli occhi se solo avessero insistito nella loro pazzia. Ma i tre compari dovevano avere qualche santo protettore in Paradiso, perché caddi miseramente sulla sdraio senza né la forza né la volontà di rialzarmi. E solo così, credetemi, potettero salvarsi l'osso del collo: altrimenti in serio pericolo! Tentai ancora disperatamente di rimettermi in piedi, senza però riuscirci.
   Intanto la sospetta presenza di altri marines pronti a strapparmi dalle mani i tre della ronda col passare dei minuti aumentava, e quella che apparentemente poteva sembrare una banale lite da cortile – peraltro del tutto priva di un valido motivo – rischiava di tramutarsi in un maledetto imbroglio nel quale avrei potuto avere la peggio. D'altro canto non era pensabile che io da solo, in quelle condizioni, avessi potuto tenere testa a quasi mezza Marina Militare degli Stati Uniti. Perciò si trattava  di simulare una specie di ritirata strategica, senza necessariamente dare l'impressione che stessi calando le brache: cosa comunque che non avrei mai fatto perché avevo ragione da vendere. Così, quando i tre ribaldi se ne andarono...con un'aria schifata che non stava né in cielo né in terra, io fui magnanimo e li lasciai andare.
   Quella sporca faccenda era dunque da considerarsi conclusa, almeno per quanto mi riguardava. E' vero che l'unico a dover recriminare perché in credito di un ceffone sarei stato io, ma il buonsenso, malgrado l'ebbrezza, consigliava di stendere un velo su quello che ormai andava considerato frutto della stupidità. E dunque, senza rancore.
   Fu quello del terzetto che non aveva spiccicato parola ad invalidare l'armistizio! Mentre si stava allontanando egli infatti si girò dalla mia parte e dopo il gestaccio del dito medio, generalizzando grugnì:
   – Italiani di merda!
   Chiamando in causa tutti i miei connazionali, l'infame cercava rogne a trecentosessanta gradi. L'offesa questa volta riguardava l'intero popolo italiano, perciò era gravissimo. A mio avviso c'era persino il presupposto di lavarla nel sangue: dichiarando guerra...almeno da parte mia, agli Stati Uniti d'America. I fottutisimi Yenkees dovevano finirla di andare in giro per il mondo a mostrare i loro muscoli flaccidi...visto l'alto tasso di obesità di cui facevano bella mostra. E se si ritenevano imbattibili in virtù della loro sofisticata tecnologia bellica, poco male: mi sarei fatto degli  alleati in grado di contrastarli: Per esempio, i Sovietici: essendo gli unici a fornire determinate garanzie.
   Coinvolgere questi ultimi in una guerra a suon di missili contro gli U.S.A. non era, comunque, impresa facile. Ci sarei forse riuscito – mi dissi – chiamandoli direttamente in causa come parte lesa, cioè raccontando di un anatema condito con delle parolacce: lanciato pubblicamente al loro indirizzo dall'arrogante e presuntuoso terzetto. Ma dovevo almeno in parte rendere la cosa veritiera, se non volevo fare la figura del bugiardo. Non avendo altra soluzione ci tentai, e con un tiro mancino degno della sagacia di Ulisse, urlai loro in modo che mi sentissero tutti:
   – Sono un militare dell'Armata Rossa ...e ve la dovrete vedere con Breznev!
   – L'Armata Rossa dei miei coglioni! – mi rispose il sergente, urlando anche lui, mentre col dito medio faceva platealmente il gesto del dito mettitelo in quel posto.
   Dunque era fatta! Ufficialmente informati dal sottoscritto, i Sovietici non avrebbero ignorato di certo l'onta e si sarebbero subito schierati al mio fianco...dando così fatalmente il via alla terza guerra mondiale.
   Anche se in pessime condizioni mentali e fisiche, da parte mia, certo ormai della santa alleanza col colosso sovietico cominciai le ostilità con un capolavoro d'ingegneria balistico. I pratica, dopo aver trasformato i miei occhi in due potentissime bocche di fuoco, con un paio di colpi ben piazzati nei punti critici, mandai a picco la Enola Gay con  tutto il suo equipaggio.
   Questo iniziale successo, anche se importante, non mi fece però fare salti di gioia. Né commisi l'errore di sottovalutare il nemico...avevo vinto la prima battaglia, questi sì, ma sapevo bene che la vittoria finale era tutta da conquistare sul campo. Così come altrettanto bene sapevo che avrei dovuto escogitare mille trucchi per contenere la dura reazione statunitense dopo la disintegrazione della portaerei.
   Non volendomi far trovare impreparato, da quel momento il poi decisi di tenere sempre un occhio aperto. Meglio ancora feci ripassandomi le scene viste in un film dove un americano, solo e per di più ferito gravemente, dava del filo da torcere ad una intera Divisione del Terzo Reich...messo alle strette mi sarei avvalso delle stese trovate, dando come paga ai soldati degli U.S.A. la loro stessa moneta.
   Superato brillantemente il battesimo del fuoco, senza peraltro cingermi la fronte con la classica corona di alloro, decisi che la mia prossima fatica sarebbe stata quella di raggiungere il bar della spiaggia, a non più di venti metri dietro di me. Lì, ordinando vòdka ghiacciata in omaggio ai miei nuovi alleati, era mia intenzione brindare alla distruzione della Enola Gay.
   Determinato nelle intenzioni ma non altrettanto nelle capacità motorie, dovetti affrontare il breve percorso con passi a dir poco malfermi. E solo dopo una paurosa gimcana tra una marea di corpi seminudi, stesi ad arrostire al sole come lucertole, riuscii finalmente a varcare la soglia del pubblico locale.
   Al baffuto barista chiesi una vòdka alla fragola, pagando subito con cartamoneta fior di stampa da ventimila lire. Il tizio, però, maldisposto senza un plausibile motivo verso la mia persona, girò e rigirò tra le mani la banconota massa da me sul bancone. Poi aprì lentamente la cassa per darmi il resto, senza togliermi gli occhi di dosso, mi servì il liquore: centellinando la goccia. Devo ammettere che ringraziarlo mi costò parecchia fatica, e se lo feci fu solo una conseguenza della mia buona educazione.
   Col bicchiere in mano, riempito a metà di quell'arsenico mai bevuto prima, mi avvicinai ad un tavolo dove quattro avventori in costume da bagno stavano disputando una rissosa partita Pinnacola. Resomi conto che tutte le dispute nascevano dalla cattiva interpretazione delle regole del gioco, da grande esperto quale mi reputavo di essere intervenni per colmare certe loro macroscopiche lagune. Ma la mia intromissione non piacque al più agitato dei quattro, che mi stizzì subito con quel gesto della mano inteso per "smammare". Li lasciai quindi nella loro ignoranza....quasi certo che la partita sarebbe finita a botte. Infine, senza palesare alcun risentimento cercai una sedia su cui sedermi il il più lontano possibile dai quattro scorbutici  pinnacolisti.
   Ad appesantire maggiormente quella mattinata da bestie ci pensò un tipo viscido. Costui, sempre in giacca e cravatta, era il cliente più malvisto del locale perché spesso e volentieri, ammorbandoli, si calava nei panni per lui stretti del critico integerrimo...rompendo l'anima a qualche malcapitato.
   Quel giorno il so bersaglio preferito fu una giovane prostituta, conosciutissima nella zona e seduta a me di fronte, che con uno scomposto accavallar di gambe  mostrava senza imbarazzo le sue variopinte mutandine: cosa che a me non faceva né caldo e né freddo.
   Di opposto parere era il fustigatore di costumi. Secondo lui – e lo spiattellava senza remore –  in quanto destinatario esclusivo dal messaggio...che prefigurava un deplorevole mercimonio, io avrei dovuto dissuadere la donna con parole forti: dicendole che non intendevo fare acquisti del genere. Una intromissione, quella, che lasciava molto a desiderare perché mentre da un lato il mendace predicava come un prete dal pulpito, dall'altro, con occhi da ippopotamo bagnato scrutava tra le cosce della mondana, dando una schifosa immagine di se stesso. Inoltre, col suo puzzolente alito di aglio mi respirava sottovento, ad una spanna dal naso.
   Va da se che in altro luogo lo spettacolo offerto dalla giovane donna di vita si sarebbe potuto dire lascivo, ma con tutti quei corpi seminudi sulla spiaggia, appena fuori la porta del bar, non riuscivo a
capire come ci si potesse scandalizzare per delle mutandine del tutto simili ad un costume da bagno.
E va anche da se che in un altro momento avrei spiattellato sul grugno del laido predicatore tutta la sua ipocrisia! Ma la mia guerra privata con gli U.S.A. non mi permetteva divagazioni di sorta: tanto che ormai tra un bicchiere e l'altro – ero già alla terza vòdka – vedevo orde di marines effettuare velocissimi sbarchi su gran parte delle nostre coste libere; da dove poi...a marce forzate, andavano  verso tutte le direzioni, col preciso ordine di scovarmi e farmi pagare con la vita l'affondamento della Enola Gay. Però questo non mi metteva più paura: avrei venduto a caro prezzo la pelle.
   Al quarto bicchiere – non più di vòdka ma di grappa – cominciai a nutrire qualche dubbio circa l'esito finale del conflitto. Mi venne perciò in mente di chiedere aiuto al Capo dello Stato di allora, Giovanni Leone. Da suo connazionale che pagava le tasse mi sarebbe bastato alzare la cornetta del telefono, metterlo al corrente dell'accaduto e lui, per mandato costituzionale, non avrebbe potuto esimersi dal difendermi da quella gratuita violenza straniera, anche se si fosse resa necessaria una chiamata alle armi dell'intero Popolo Italiano! I prima istanza forse avrebbe tergiversato...essendo io un semplice cittadino senz'arte né parte nel panorama politico italiano. Ma poi sicuramente lo avrebbe fatto per quel volgare "Italiani di merda": che stando alle intenzioni del mittente, e senza voler personalizzare per convenienza, era indirizzato agli Italiani tutti...e lui ne era il Capo.
   Conoscendo il carattere sanguigno del Presidente, e sapendo che non era santo da porgere l'altra guancia dopo uno schiaffo, io avrei potuto pesino dare per certo l'intervento armato. Invece fui preso dal panico ed accantonai l'idea, rimettendo in tasca i gettoni telefonici che avevo già in mano.
A bloccarmi fu la paura della terza guerra mondiale scatenata proprio da me, con la prospettiva di passare alla storia come il fautore di una catastrofe senza precedenti, e quindi di dover rendere conto all'opinione pubblica di milioni e milioni di morti!
   Già, proprio così. Perché se all'epoca dei fatti non si parlava che di  bombardamenti strategici, cioè diretti esclusivamente su bersagli militari, i soldati yankees – e questo lo davo per certo – non si sarebbero astenuti dallo sganciare testate nucleari sulle nostre più importanti città, non fosse stato altro che per quel freddo calcolo di ricostruzioni post-belliche spettanti ai vincitori...quali loro si credevano di essere sempre,  per divino volere. Cosa dite? La mia non era vigliaccheria ma un automatico rifiuto mentale...ovvero l'indigesta visione della mia peggio riuscita fotografia su tutti i giornali del mondo, con a fianco una gigantesca dicitura del tipo: "Per colpa di uno scimunito, ieri, durante un raid aereo, Roma è stata rasa al suolo."!
   Meglio un patto di ferro coi Sovietici, allora pensai. Con loro dalla mia parte gli Americani si sarebbero dovuti limitare al solo uso di armi convenzionali. Diversamente, utilizzando il tipo di bombe che polverizzarono Hiroscima e Nagasaki, ne avrebbero saggiato anche loro la distruttiva potenza.   
   Partendo quindi dal presupposto che in quel momento tra Mosca e Washington, all'ombra della cosiddetta "guerra fredda" non scorrevano sorrisi ma robuste minacce – velate e non – mi dissi che per trasformare in una vera guerra quella specie di litigio senza spargimento di sangue...ma con le Forze Armate di entrambe le parti in perenne stato di all'erta, ci andava un motivo scatenante a prova di bomba.  E quale altra diabolica pensata avrei potuto avere, quel mattino, se non il gesto del dito medio legato alla frase "Armata Rossa dei miei ciglioni!"? Infine – mi dissi ancora – lavorando di cesello con la politica internazionale, grazie a quelle offese subite sia dal popolo italiano che dalle diverse popolazioni sovietiche, avrei potuto addirittura promuovere (inizialmente sottobanco per non
allertare i nemici americani) un'alleanza italo-sovietica!
   Su quest'ultima ipotesi, però, non avendo come italiani mai stretto alleanze belliche con popoli accasati aldilà della Cortina di Ferro, mi sorse un sospetto da non sottovalutare...e se alla lunga fossero sorte della incomprensioni tra noi ed i nostri nuovi alleati...come con i Tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale? Era un rischio che non potevo correre e  quindi accantonai la pensata. Così, nel buttare al vento tutte le mie elucubrazioni, mentre il sole raggiungeva il punto più alto della volta celeste, ad un certo punto giunsi alla conclusione che quella era una sporca faccenda riguardante me solo.
   Io non ho mai saputo, da astemio, quanti bicchieri di liquori alla rinfusa ingurgitai quel mattino. Lo feci finché il barista non decise di lasciarmi a secco proprio mentre cominciavo a prenderci gusto. Tentai diverse volte di convincerlo elemosinando un Amaretto di Saronno...a bassa tenuta alcolica, ma il mefisto si dimostrò inflessibile e col cuore di pietra.
   All'ora di pranzo il locale si spopolò e quella che mi era parsa la fucina del chiasso si trasformò in un'oasi del silenzio. Anche i quattro pinnacolisti si dileguarono, con l'impegno di ritrovarsi nel pomeriggio. Così alla fine restammo in tre: il sottoscritto...impegnato a seminare panico tra gli schieramenti nemici, un tale dal vago accento straniero e con occhiali Ray Ban...da me osservato con un certo sospetto perché poteva essere una spia al soldo americano, ed il barista...tutto preso a lavare bicchieri e tazzine.
   Da quando quest'ultimo non volle più servirmi da bere, la mie escursioni terroristiche si erano fatte incessanti. Copiando Nembo Kid e Barman, ero diventato talmente bravo da percorrere alla velocità della luce tutte le distanze esistenti tra me e le linee nemiche. Il Generale di tutte le Forze Armate statunitensi, nelle interviste rilasciate ai corrispondenti di guerra di mezzo mondo, mi definiva "Il bastardo del mordi e fuggi". Il successo in persona non faceva in tempo ad intrecciare corone di alloro per cingere la mia fronte...tanti erano i   colpi di mano da me messi a segno con una maestria da Guiness dei Primati. Pensate che mi ci vollero dieci secondi per affondare col mio Nembo-Mas (motosilurante della Seconda Guerra Mondiale rivisto e corretto) le due supercorazzate Baltimora e Mustang, in rada a Palermo. E poco più del doppio per abbattere in acque mediterranee, col mio Bat-Mac (un derivato del Macchi 205) un'intera formazione di B-52...un vero e proprio smacco per quelle famose fortezze volanti. Ormai ero diventato il peggiore incubo di tutti gli abitanti degli Stati  Uniti. Quando mi vedevano a bordo della mia Nembocar, armata di cannoncini Breda 40, si comportavano come tanti gnu alle prese con un leone incazzato. E farsi da me prendere erano guai non raccontabili: dei loro corpi ne facevo carne da macello da vendere agli zoo.
    Stavo cannoneggiando Hollywood, colpevole di aver dato pochi Oscar alla filmografia italiana, quando l'uomo coi Ray Ban si avvicinò al mio tavolo.
   – Sei stato uno sciocco a metterti contro quei marines! – mi apostrofò con un sorrisetto che stava tra il divertito e la commiserazione.
   Non avendolo mai visto prima e basandomi sugli accenti – spesso capaci di essere più chiari delle parole – all'idea della spia affiancai anche quella del mediatore poco informato, o per meglio dire: un ambasciatore di pace del tutto all'oscuro di quanto stava accadendo.
   – Guardi che sto vincendo io! – gli feci notare compiaciuto.
   A giudicare dall'espressione degli occhi dovetti sembrargli un pazzo: impressione che non mi preoccupò affatto perché all'epoca venivano considerati tali tutti coloro che, arditamente, osavano mettersi contro le Armate americane. Poi cominciò a squadrarmi lentamente: andando con gli occhi in ogni parte del mio corpo...forse in cerca di ferite da riferire al nemico.
   – Lei non sa di cosa io sia capace! – dissi ancora per convincerlo a stare dalla mia parte.
   – E di cosa sarebbe capace lei? – a mo' di sberleffo.
    Eccolo qui...avevo fiutato bene! Lo stupido, nulla-vedente e gaglioffo, era una spia e cercava di tastare la mia forza per poi riferirla agli Americani.
   ̶  Io sono peggio dei kamikaze giapponesi quando mi ci metto
d’impegno e devo difendermi. Le anticipo che prima o poi mi vedrà calpestare le aiuole della Casa Bianca...e dove adesso crescono fiori pianterò prezzemolo!
   – Intanto, per la rabbia e la vergogna, è da stamattina che tieni nascosta la guancia sinistra con la mano!
   Altro che cieco! Concedendosi il diritto di darmi del tu  senza permesso, il verme doveva essere a conoscenza dell'antefatto. Perciò decisi di tastargli il polso.
   – Ho mal di denti! – le dissi facendo finta di niente ed aspettando la controbattuta...che arrivò puntuale come una staffilata al mio povero fegato.
   – Ma non dire stronzate! So benissimo  che il tuo mal di denti è dovuto allo schiaffo che ti ha rifilato quel sergente della Enola Gay. – si fece animo il quaquaraquà
   – Lei sta delirando: deve ancora nascere il tipo in grado di prendermi a schiaffi. E quand'anche fosse sarebbe un tiro mancino. Diversamente mi terrei la guancia destra!
   – Non negare, tanto ho visto tutto! – finì col dire la spia prima di riguadagnare il bancone, dove si mise a confabulare col barista.
   Quest'ultimo battibecco fu per me la conferma di quanto già avevo avuto modo di pensare fin dal primo momento, cioè che il bar era un locale mal frequentato. Perciò me ne allontanai correndo. Inseguito però dal proprietario che reclamava il saldo dell'ultima bevuta. A debito estinto dopo una piccola precisazione sul deficitario servizio, Baffo...cuore di pietra, mi consigliò un fresco tuffo in  mare.
   Ovviamente non era mia intenzione ascoltarlo, e mi allontanai senza voltarmi. Barcollando però, e con una forte nausea. Tanto che temetti di avere respirato aria infetta...dovuta magari ad un ordigno batteriologico fatto esplodere a mia insaputa da qualche membro della Enola Gay rimasto illeso dopo l’affondamento. Tutto questo mentre il cerchio di ferro che mi strizzava il cervello fin dalle prime bevute, continuava in crescendo ad offuscarmi la vista. Con la guerra che apriva fronti a destra e manca...e che non era una scherzo. Dovevo quindi per forza resistere e mantenermi sveglio, se volevo mantenermi vincitore.
   La seconda metà del giorno fu ancora più snervante. In un momento di grande lucidità, infatti, mi ero reso conto che i miei tre nemici giurati erano ancora vivi e vegeti. Una deduzione ovvia e senza bisogno di ragionaci sopra in un qualsiasi altro istante, considerando che all'inabissamento della portaerei la ronda era in servizio sulla terra ferma. Dovevo perciò trovarli. Dovevo trovarli per vendicarmi e farmi dire, dal sergente – che seppi, in seguito, chiamarsi Henry – perché mi aveva dato lo schiaffo.
   Spinto dalla ricerca effettuai forsennati blitz in diversi locali pubblici della Città, ed anche in luoghi militari con i limiti invalicabili. Stranamente, dal come venivo accolto nei primi e bevendo ad  alta gradazione solo quando avevano la compiacenza di servirmi, da italiano in territorio italiano dovetti contare più nemici che amici. Nei secondi invece non avevo tempo per contare: lavorando di fantasia ed usando ogni tipo di travestimento utile ad eludere qualsiasi controllo, tanto ai passi che agli spacci, entrai fulmineo e se non li trovavo scappavo via con la stessa celerità.
   Parlando a bocce ferme fu una vera fortuna, per loro, riuscire a sfuggirmi. Se li avessi trovati nel corso delle mie tante escursioni oltre oceano, magari in una di quelle caserme americane basse e candide, alla presenza degli Stati Maggiori e di tutti i plotoni in riga...incapaci di arginare la mia ira, li avrei scotennati alla maniera dei Sioux. E sempre a bocce ferme, dopo la devastazione dei corpi il meritato riposo del guerriero! Altro che Uomo Ragno, Mandrake e Superman: filmetti appena in grado di farmi il solletico. Oppure Ivan il Terribile...che se paragonato al sottoscritto ne sarebbe uscito fuori, alla meno peggio, come un chierichetto in erba!
   Nel corso della serata dedicai ogni mio pensiero a Marilyn e all'appuntamento che ci eravamo dati nella notte, prima di lasciarci. Non avendo fatto durante il giorno colazione né pranzo, spinto dalla fame mi recai in una trattoria sul lungomare. Al cameriere che venne a servirmi ordinai due uova da bere, una gigantesca bistecca al sangue, una doppia porzione di tirami su, frutta mista in abbondanza e del gelato alla crema innaffiato con Vov, un liquore poco alcolico a base di rosso d'uovo. Guardato a vista dall'inserviente e dalla proprietaria, divorai tutto e pagai.
   Mezz'ora prima di recarmi al luogo d'incontro, da Balzala, la più esclusiva gelateria di Alassio, sempre guardato a vista...quella volta da tutto il personale di servizio, completai la mia scorpacciata di calorie con un zabaione caldo, e che ottenni dopo un lungo discutere perchè veniva considerato una bevanda alcolica ed io, a sentir tutti, ero già ubriaco perso. Anzi, se la memoria non m'inganna, me lo servirono a condizione che mi sarei tolto dai loro piedi subito dopo averlo bevuto.
   Quando con le scarpe in mano mi misi a correre sulla sabbia, verso lo stesso posto in cui avevamo fatto sesso la notte prima, lei mi stava già aspettando a seno nudo. Mentre sotto aveva l'altra metà del bikini. La guardai e mi sembrò sul punto di liquefarsi dalla voglia.
   – Hello, Frank! – mi salutò.
   – Ciao, Marilyn! – risposi.
    Mi baciò con grande trasporto, sognando il resto. La mia mano destra, guidata più che altro dalla consuetudine, come barchetta senza timone in mezzo alla tempesta faticò più del necessario prima di gettare l'ancora nell'unica insenatura possibile. Ma il peggio fu quando mi resi conto di non poter produrre niente di solido: il mio minislip restò fermo al suo posto, senza problemi di continenza.
   Voler fare l'amore a tutti i costi con Marilyn in quelle condizioni, senza gli attributi necessari, mi  fece sentire come uno che tentava di vendere fumo per rifarsi del gatto che gli aveva mangiato l'arrosto. Solo che lì, l'arrosto, c'era ancora tutto eccome!
   Per circa una mezz'orretta setacciai il corpo ormai nudo della mia divertita compagna, cercando condimenti e sapori capaci di smuovermi i sensi. Le mie scoordinate manipolazioni però servirono solo ad innervosire Merilyn, che già intendeva rivestirsi. Dopo diversi tentativi andati a male chiesi un'ultima prova di appello e la ottenni. Ma per lei fu come concedere al condannato a morte l'ultimo desiderio, tant'è che non ci mise niente di suo. Io volli insistere, disperatamente, ricominciando con una più sconclusionata ispezione delle sue parti erotiche non ancora palpate. Finche lei cominciò a ridere amorevolmente, ed a me non rimase che coprire la mia nuda vergogna.
   Smise di ridere dicendomi:
   – Anche tu come Henry?
   – E chi sarebbe...questo Henry? – chiesi con un pizzico di gelosia.
   ̶  Marito!  ̶  Rispose, indicando se stessa prima di rimettersi la
la parte superiore del costume da bagno...indossato al posto della biancheria intima.
   La notizia necessitava di ulteriori chiarimenti.
   – Cosa fa il tuo Henry, di lavoro?
   – Marinaio sulla Enola Gay!
   – E tuo marito sa chi sono?
   – Si, ti ha visto ieri sera al ballo.
   Eccolo il bandolo della matassa, senza alcun bisogno di ulteriori chiarimenti! Il mistero che durante il giorno mi aveva arrovellato il cervello, obbligandomi a fare dell'alcool una tisana per tutte le ore, e della ferocia la mia migliore virtù, nasceva dalla gelosia di un marito. Un tiro mancino giocato a mio danno dalla casualità dell'essere più bravo di un altro a ballare il tango figurato ed il rock and roll: rendendomi poi eroe senza gloria di eventi epici che nulla avevano da invidiare a quelli cantati da Omero nella sua Iliade. Alcuni spunti, addirittura, ne facevano quasi una fotocopia impressionante, Con Marilyn nei panni di Elena ed io in quelli di Paride. In quelli del principe greco Menelao poteva starci invece starci Henry...ovviamente senza corona ma con le stesse corna. Mentre al posto del Cavallo di Troia – per completare la similitudine – poteva starci la Enola Gay con la pancia piena di nemici.
   Forse fu proprio per evitare ad Alassio la stessa fine della città di Priamo a causa di una donna, fatto sta che ritenni conveniente per tutti mettere fine non ad una irripetibile storia di sesso ma ad una tresca belle e buona...essendo Marilyn la legittima consorte di Henry. Il posto adatto per farlo era lì...dove insieme avevamo consumato un piacevolissimo inganno. E fu solo questo a farmi andar via senza dare una plausibile spiegazione alla donna americana, e non la rabbia o la vergogna di aver fatto cilecca in quanto maschio: come qualche malalingua potrebbe insinuare.
   Chiusa la parentesi con l'indimenticata Marilyn, restava però aperto il contenzioso con Henry. Ma di questo non mi diedi pensiero perché non ero stato io il primo a volere la guerra.
   Con passi malfermi ed incapaci di percorrere un metro in linea retta, per giungere alla Pensione del Golfo attraverso gli stretti vicoli della Città, intasati di turisti, dovetti farmi largo a furia di spinte. Solo chi mi notava in anticipo, forse in segno la riconoscenza per aver preferito la salvezza di Alassio al bollente corpo di Marilyn, si allontanavano dal centro-strada per lasciarmi passare comodamente. Dovevano però essere molto timidi – mi parve di capire dai loro sguardi –  infatti se tentavo di avvicinarmi per ringraziarli si eclissavano velocemente.
   Arrivato a destinazione, con una dolorosa capocciata ad una palina segnaletica  posta male lungo il tragitto ed una sberla di troppo, dopo alcuni tentativi mal riusciti misi la chiave nella toppa e girai, aprendo la porta d'ingresso.
   Entrai con calma, cercando di dare uno stile accettabile alla mia camminata. Ma fu inutile: andai a sbattere subito contro la prima sedia che mi capitò tra i piedi nel salone-ristorante apparecchiato per il giorno dopo, rovesciandola. Il forte rumore mise in allarme la prorompente padrona di casa, donna Michela, che appena mi vide uscì fuori dagli argini.
   – Ragazzo!...dove ti sei cacciato nelle ultime trentasei ore? – mi chiese, dandomi ad intendere che non avrebbe tollerato giri di parole.
   Non avendo ottenuto risposta mi si avvicinò più del consigliabile. Ma si allontanò all'istante.
   – Tu sei ubriaco fradicio! Puzzi d'alcool! Perché ti sei ridotto in questo stato?
   Era inviperita. La guardai di sghimbescio, fingendo di non sentirla, e mi accorsi che aveva l'aria di volermi sfrattare senz'alcuna proroga. Di sicuro non si rendeva conto che un' ora prima, salvando Alassio, avevo anche salvato la sua pensione-catapecchia...come avrebbe dovuto chiamarsi il suo servizio pubblico di tipo alberghiero...a giudicare dal pessimo stato di conservazione. Però non dai prezzi: eccessivamente alti rispetto alla qualità dei servizi.
   Non volendo star lì a discutere, m'incamminai lungo il corridoio in fondo al quale si trovava la mia cameretta.
   – Ho parlato a te, giovanotto! Ti ricordo che questa è una pensione signorile...se non lo hai ancora capito!
   Lo sapeva anche lei che non era vero, ma ci marciava perché, fra i tanti, qualcuno ci credesse. Io invece dovetti accontentami di quella locanda, che tra l'altro, per mancanza di posti letto in tutta la Città, all'occorrenza diventava anche un albergo ad ore.
   – Voglio una spiegazione! – sbraitò in ultima battuta la collerica ultrasessantenne, incartapecorita e con un trucco tanto volgare da fare schifo, o meglio: da autentica mezzana.
   Volendo avrei potuto dire qualcosa per rabbonirla, ma conoscendo il suo grado di acidità finsi ancora di non sentire. E poi, in ultima analisi, cosa ne poteva sapere lei di Andromaca alle Porte Scee. O di Achille ed Ettore fuori le mura di Troia, cioè di feroci vendette tra due acerrimi nemici…come io ed Henry, per intenderci? La mitologia greca non era materia da mercato rionale: dove a giorni alterni donna Michela soleva approvvigionarsi di frutta e verdure di seconda scelta…che poi serviva ai suoi distratti clienti come primizie! Intanto urlava e parlava da sola.
   Al sicuro nella mia stanza, con la porta chiusa a doppia mandata, mi sentii quasi sollevato da un peso. La voglia di stare finalmente solo era così forte che le macchie di umidità del lercio soffitto, ritenute in precedenza da altri un vero e proprio attentato alla salute pubblica, sembrava dessero un sapore d'intimità all'ambiente. Anche gli orribili disegni della tappezzeria, quella sera, mi parvero eccezionalmente belli...e sì che avrebbero dato il voltastomaco anche ad uno struzzo sia per i colori che per la tecnica.
   Alla fine i miei occhi andarono sul lettino, tutto sommato accettabile, e mi dissi che per quel giorno poteva bastare. Ero deciso a buttarmi sopra e dormire fino all'arrivo dei Pompieri: chiamati da donna Michela per forzare la porta in quanto ritardatario nel lasciare libera la stanza. Invece pensai che prima avrei dovuto impostare un telegramma di scuse, da indirizzare il mattino dopo, magari sul tardi, a chi di dovere...se davvero intendevo eliminare le incomprensioni che avevano generato quel putiferio tra me ed il popolo degli Stati Uniti: sergente Henry compreso. Trovandola un'ottima idea, cominciai quindi a scrivere.
   Con la carta igienica che si strappava ad ogni tratto di penna, e le frasi che assolutamente non volevano assumere un senso compiuto, non mi fu facile approntare la bozza: dovetti scrivere e riscrivere diverse volte le stese cose. Ricordo che consumai circa mezzo rotolo di carta prima di approvarne i contenuti.
   Il mattino dopo, quando donna Michela bussò per farsi pagare in anticipo la seconda settimana, mi svegliai di soprassalto e con un fastidioso cerchio alla testa. Non volendo iniziare la giornata anche con l'aggiunta di una visione non certamente idilliaca, passai la busta con dentro la cifra pattuita sotto la porta. Lei la raccolse e se ne tornò in cucina, bofonchiando parole astruse.
   Rimasto solo decisi di farmi una doccia calda, sicuro che mi avrebbe ridato un pizzico della mia perduta tonicità. Ma non avevo ancora una buona tenuta di gambe e rimandai. Guardandomi intorno Notai che il letto era in ordine e per niente disfatto: segno evidente che mi ero addormentato sulla sedia, con la testa sul tavolo. Strabuzzai gli occhi e lo vidi. Il telegramma che avevo scritto prima di addormentarmi. Sul quale si leggeva:
“Ai Sigg. Ufficiali della Enola Gay
e p.c. alla temibilissima Ciurma
un miglio al largo dalla spiaggia
17021  Alassio  (Sv)

   Chiedo scusa per l'avventura galante con la bella Marilyn, moglie del sergente Henry: membro assai manesco del Vs. equipaggio. Prometto nel modo più assoluto che in avvenire la cosa non si ripeterà: avete la parola di un italiano...ma non di merda: come sono stato definito da un componente della ronda al comando del sergente sopra citato.
   Qualora dovesse capitarmi un'avventura simile, giuro che sarò scrupoloso nell'accertare che tra la donna ed il rispettivo consorte ci sia stata una più che regolare sentenza di divorzio: specialmente se americana.
                                                                      Vogliamoci bene:
                                                                           F.sco Sacco
Alassio, 17 agosto 1973”

   Lo rilessi ancora una volta e per niente soddisfatto dello stile lo cestinai. Quindi mi tuffai nel letto: non ero pronto per affondare il mondo.
   Che sbornia, ragazzi!



















Note:

1. "U malu ferru si ndi va cca mola": Il cattivo ferro se ne va con la mola.
2. "Sinan Pascià": Scipione Cicala, di origine genovese ma nato in Sicilia (rapito dai Turchi in tenera   età e convertito all’Islam) al comando delle sua flotta fece molte razzie in Calabria, tentandone la dominazione.  
3. "Tamarro": Zoticone.
4. "Avanti Savoia!" : Antico grido di guerra di Casa Savoia.
5. "Dame di San Vincenzo": Donne dell’alta borghesia torinese col vezzo della beneficenza.
6."figghicì": Figlio mio in senso vezzeggiativo.
7. "non c'è trippa per gatti": un po' come dire di non fare il furbo.
8. "er mejo": Il migliore.
9. "agnolotti e bagna cauda": Piatti tipici piemontesi.
10. "marca Napoli": Falso come l’oro di Napoli (mischiato col rame).
11. "terroni": Meridionali (come dire cittadini di serie B).
12. "gamba": Cento lire in gergo torinese.
13. "piotta": Equivalente in gergo romanesco della gamba torinese.
14. "burinata": Sceneggiata.
15. "Mole": monumentale costruzione a punta, simbolo Torino.
16. "cita": Bambina in piemontese.
17. "Mac Piemunt": Solo Piemonte.
18. figghiu i gatta surici pigghia": Figlio di gatta topi prende.
19. "magaria": Maledizione.
20. "mammana": Ostetrica.
21. "tappini": Ciabatte.
22. "vombicari": Vomitare.
23. "nu jumburutu": Un gobbo
24. "picchì puru iddra u ssi facia russa sa ci capitava i zumbari u fuassu": Perché pure lei non diventava rossa se le capitava di  saltare il fosso (saltare la cavallina).
25. "nta mpigna": Nella mutria.
26. "paria sputatu a chiru ca sapimu vivu sanizzu...e ccu tant'i jumbu Signori u su pija mo": Sembrava la copia-sputata di colui che sappiamo vivo e sanissimo...e con tanto di gobba: il Signore (inteso come Padreterno) possa prenderselo all'istante.
27. "figghicè": Figliola.
28. "ruga": Contrada, via, vicolo.
29.  "Union Piemunteisa": Unione Piemontese.
30.  Editrice Laterza.
31.  Editrice Siderno 1994.
32.  Antiche bettole.
33. Marcia Silenziosa dei Quarantamila: organizzata dai colletti bianchi della Fiat  a Torino il                    14/10/1980, come protesta agli interminabili scioperi dei metalmeccanici.
34. à la fortune du pot: (equivale all'italiano) accontentarsi di quel che passa il convento.



35. sciura: signora (nel dialetto milanese). i

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